Da Corriere della Sera del 15/07/2004
Armi di Saddam, assolti Blair e il governo
Nel rapporto Butler i servizi segreti accusati di superficialità. «Il premier era in buona fede»
di Luigi Ippolito
LONDRA - E’ come un romanzo di Agatha Christie: a ogni pagina ci si imbatte in un nuovo cadavere. Con la differenza che arrivati all'ultima riga si scopre che nessuno è colpevole. Ed è inutile andarlo a chiedere al maggiordomo: perché Lord Butler (in inglese, per l'appunto, Maggiordomo), affermando che la responsabilità è condivisa da tutti, ha scagionato individualmente i singoli imputati, da Tony Blair giù a digradare.
Questa è stata la conclusione del lavoro di oltre 5 mesi condotto dalla commissione d'inchiesta incaricata di indagare sulle prove fornite dall' intelligence britannica contro Saddam Hussein e dunque, in ultima analisi, sulla legittimità della guerra all'Iraq. Una commissione che il governo era stato costretto a istituire a febbraio dopo che era ormai divenuto evidente che le supposte armi di sterminio di Saddam esistevano solo nelle accorate perorazioni dei leader della coalizione anglo-americana.
Il rapporto Butler, presentato ieri alla stampa in un clima di febbrili aspettative, ha sciorinato un impressionante catalogo di fallimenti dei servizi segreti, che hanno basato le loro informazioni su fonti scarse, inattendibili e poco sperimentate.
«L'intelligence si è rivelata gravemente fallace», ha sentenziato Butler, che si è soffermato in particolare sui famigerati «45 minuti», quelli che secondo il dossier del governo di Londra pubblicato nel settembre 2002 sarebbero stati sufficienti a Saddam per lanciare un attacco con armi di distruzione di massa. Un'informazione sulla quale si era appuntata l'attenzione dei media e che invece era «poco chiara» e che «non avrebbe dovuto essere inclusa in quella forma nel dossier del governo».
Blair dunque «ha fatto apparire l'intelligence più solida di quanto non fosse». E sui servizi segreti è stato caricato «un peso più pesante di quanto non potessero sopportare». E tuttavia Downing Street «non tentò di sviare la pubblica opinione» e la commissione non ha trovato «nessuna prova contro la buona fede del primo ministro». Come ha ripetuto più di una volta Butler in conferenza stampa, «sarebbe stato stupido da parte del governo asserire qualcosa che poi si sarebbe rivelata falsa dopo la guerra». E dunque anche se il dossier del governo «ha spinto ai limiti» il materiale fornito dai servizi segreti, la responsabilità è collettiva, di tutti e di nessuno, e perciò neppure John Scarlett, il capo dei servizi segreti, è tenuto a farsi da parte.
Butler sta ancora parlando che dal numero 10 di Downing Street arriva la reazione di Blair: che ovviamente «accetta in pieno le conclusioni del rapporto», visto che ne è uscito fresco di bucato.
Un'ora dopo il primo ministro si presenta gongolante alla Camera dei Comuni. Fa un minimo atto di contrizione, quando ammette che al momento di lanciare la guerra nel marzo del 2003 l'Iraq «non possedeva o non era in grado di dispiegare armi chimiche o batteriologiche», ma subito riafferma che quella di Butler è stata la quarta inchiesta che ha acclarato la «buona fede» del governo: «Nessuno ha mentito, nessuno ha inventato prove», scandisce Blair.
E per quanto riguarda la legittimità del conflitto, il premier britannico ribadisce che «se avessimo indietreggiato avremmo lasciato al suo posto Saddam Hussein con tutte le sue malvage intenzioni». E dunque, conclude fra i boati di dissenso dell'opposizione, «non credo che sbarazzarsi di Saddam Hussein fu un errore: senza di lui il mondo è un posto più sicuro».
La commissione Butler, in conclusione, ha partorito una strana creatura: un rapporto che è pieno di critiche all'azione dei servizi segreti e alle stesse pratiche di governo di Blair, accusato di troppa «informalità» e quindi di scarsa trasparenza nel processo decisionale. Ma un rapporto che si rifiuta di trarre conseguenze politiche e tantomeno di name and shame , nominare e svergognare i responsabili.
Lo ha fatto invece l'opposizione, con il leader dei conservatori Michael Howard , secondo il quale Blair «ha perso ogni credibilità». E con il leader liberaldemocratico Charles Kennedy, secondo cui il mandato ristretto della commissione Butler ha impedito di affrontare il nodo cruciale: il giudizio politico in base al quale fu pressa la decisione di andare in guerra.
E potrebbero farlo oggi gli elettori, chiamati a esprimersi in due importanti elezioni suppletive, a Birmingham e a Leicester. Dove due seggi considerati finora sicuri dai laburisti potrebbero finire nelle mani rispettivamente dei conservatori e dei liberaldemocratici.
Questa è stata la conclusione del lavoro di oltre 5 mesi condotto dalla commissione d'inchiesta incaricata di indagare sulle prove fornite dall' intelligence britannica contro Saddam Hussein e dunque, in ultima analisi, sulla legittimità della guerra all'Iraq. Una commissione che il governo era stato costretto a istituire a febbraio dopo che era ormai divenuto evidente che le supposte armi di sterminio di Saddam esistevano solo nelle accorate perorazioni dei leader della coalizione anglo-americana.
Il rapporto Butler, presentato ieri alla stampa in un clima di febbrili aspettative, ha sciorinato un impressionante catalogo di fallimenti dei servizi segreti, che hanno basato le loro informazioni su fonti scarse, inattendibili e poco sperimentate.
«L'intelligence si è rivelata gravemente fallace», ha sentenziato Butler, che si è soffermato in particolare sui famigerati «45 minuti», quelli che secondo il dossier del governo di Londra pubblicato nel settembre 2002 sarebbero stati sufficienti a Saddam per lanciare un attacco con armi di distruzione di massa. Un'informazione sulla quale si era appuntata l'attenzione dei media e che invece era «poco chiara» e che «non avrebbe dovuto essere inclusa in quella forma nel dossier del governo».
Blair dunque «ha fatto apparire l'intelligence più solida di quanto non fosse». E sui servizi segreti è stato caricato «un peso più pesante di quanto non potessero sopportare». E tuttavia Downing Street «non tentò di sviare la pubblica opinione» e la commissione non ha trovato «nessuna prova contro la buona fede del primo ministro». Come ha ripetuto più di una volta Butler in conferenza stampa, «sarebbe stato stupido da parte del governo asserire qualcosa che poi si sarebbe rivelata falsa dopo la guerra». E dunque anche se il dossier del governo «ha spinto ai limiti» il materiale fornito dai servizi segreti, la responsabilità è collettiva, di tutti e di nessuno, e perciò neppure John Scarlett, il capo dei servizi segreti, è tenuto a farsi da parte.
Butler sta ancora parlando che dal numero 10 di Downing Street arriva la reazione di Blair: che ovviamente «accetta in pieno le conclusioni del rapporto», visto che ne è uscito fresco di bucato.
Un'ora dopo il primo ministro si presenta gongolante alla Camera dei Comuni. Fa un minimo atto di contrizione, quando ammette che al momento di lanciare la guerra nel marzo del 2003 l'Iraq «non possedeva o non era in grado di dispiegare armi chimiche o batteriologiche», ma subito riafferma che quella di Butler è stata la quarta inchiesta che ha acclarato la «buona fede» del governo: «Nessuno ha mentito, nessuno ha inventato prove», scandisce Blair.
E per quanto riguarda la legittimità del conflitto, il premier britannico ribadisce che «se avessimo indietreggiato avremmo lasciato al suo posto Saddam Hussein con tutte le sue malvage intenzioni». E dunque, conclude fra i boati di dissenso dell'opposizione, «non credo che sbarazzarsi di Saddam Hussein fu un errore: senza di lui il mondo è un posto più sicuro».
La commissione Butler, in conclusione, ha partorito una strana creatura: un rapporto che è pieno di critiche all'azione dei servizi segreti e alle stesse pratiche di governo di Blair, accusato di troppa «informalità» e quindi di scarsa trasparenza nel processo decisionale. Ma un rapporto che si rifiuta di trarre conseguenze politiche e tantomeno di name and shame , nominare e svergognare i responsabili.
Lo ha fatto invece l'opposizione, con il leader dei conservatori Michael Howard , secondo il quale Blair «ha perso ogni credibilità». E con il leader liberaldemocratico Charles Kennedy, secondo cui il mandato ristretto della commissione Butler ha impedito di affrontare il nodo cruciale: il giudizio politico in base al quale fu pressa la decisione di andare in guerra.
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