Da La Stampa del 15/07/2004
Meno tasse? Tre motivi per temerlo
di Tito Boeri
Dal «meno tasse per tutti» siamo giunti al «meno tasse a tutti i costi». Il presidente del Consiglio ha riaffermato il suo intento di tagliare le tasse «per almeno un punto del Pil» entro la fine della legislatura, nonostante il deterioramento dei nostri conti pubblici. Anzi, il messaggio si è fatto più insistente man mano che i nodi venivano al pettine: allorché il governo si trovava a riconoscere l'impossibilità di raggiungere a bocce ferme l'obiettivo del disavanzo al 2,946% previsto solo un mese fa dalla Trimestrale di cassa, dopo le dimissioni di Tremonti, il downgrading di Standard & Poor's e l'aumento dei tassi d'interesse deciso dalla Fed.
C'è forse un ammirevole tentativo di stare ai patti con gli elettori in questa ostinata ricerca di tagli alle tasse. Ma il vero significato del contratto sottoscritto nel 2001 con gli italiani da Berlusconi, il motivo di molti consensi raccolti nelle aree più produttive del Paese, è stato l'impegno a ridurre il peso dello Stato in economia. Paradossalmente, l'ostinazione con cui si recita il «meno tasse a tutti i costi» rischia di portarci nella direzione opposta. Anziché meno Stato avremo più invasione del pubblico nella sfera privata. Almeno tre i motivi.
Il primo è che c'è un problema di credibilità. Ciò che ha permesso negli Anni 90 di ridurre la spesa pubblica in Italia è stata la riduzione degli oneri sul «terzo debito pubblico del pianeta». Abbiamo avuto meno spesa per interessi sul debito (circa 7 punti in meno di Pil) grazie al «voto di fiducia» espresso dagli investitori nei confronti del nostro risanamento fiscale. Oggi il clima sta cambiando. La perdita di fiducia non è un fatto graduale, avviene in modo drammatico, improvviso. Diventa più probabile se diamo segnali che rafforzano le preoccupazioni degli investitori, con promesse di tagli fiscali che minacciano di creare altro deficit. Le motivazioni del downgrading di Standard & Poor's fanno riferimento proprio al prospettato taglio delle tasse in disavanzo.
Il secondo motivo è che non sarà facile trovare qualcuno che accetti con consapevolezza di ciò che l'attende l'incarico di ministro dell'Economia, con una tantum per due punti di Pil da rimpiazzare, sapendo a priori di dover comunque tagliare le tasse. Sarebbe come impegnarsi a guidare un Tir in discesa senza freni. E di una solida guida dell'economia c'è bisogno al più presto per evitare la perdita di controllo sulla spesa. Ogni giorno che passa senza direzione tecnica della politica economica allontana di settimane ogni sforzo di programmazione. Speriamo di essere smentiti da un Dpef sempre più atteso.
Infine il terzo motivo: la politica del «meno tasse a tutti i costi» legittima la politica di bilancio in «zona Cesarini», i provvedimenti che riducono la trasparenza dei conti pubblici (le cartolarizzazioni), che impongono nuovi balzelli destinati a gravare sui consumatori (come le tasse sulle riserve tecniche delle assicurazioni), che cambiano le regole in corso d'opera (tagliando i fondi del bonus occupazione) sottraendole di fatto al controllo democratico. Esattamente gli stessi difetti che si imputavano ieri alle regole rigide del Patto di Stabilità. E' un'invasione notturna dello Stato, negli incubi di nuove alchimie fiscali, di confische, che ritardano i piani di investimento delle famiglie (per non parlare di chi fa impresa).
E' giusto tagliare le tasse, ma conta come lo si fa. Occorre stabilire dove ci vuole meno Stato e dove, magari, di più. Tra i tanti libri bianchi stilati nelle ultime legislature, ne manca uno essenziale: un documento con tanti segni meno, con un titolo impegnativo: «Cosa tagliare?».
C'è forse un ammirevole tentativo di stare ai patti con gli elettori in questa ostinata ricerca di tagli alle tasse. Ma il vero significato del contratto sottoscritto nel 2001 con gli italiani da Berlusconi, il motivo di molti consensi raccolti nelle aree più produttive del Paese, è stato l'impegno a ridurre il peso dello Stato in economia. Paradossalmente, l'ostinazione con cui si recita il «meno tasse a tutti i costi» rischia di portarci nella direzione opposta. Anziché meno Stato avremo più invasione del pubblico nella sfera privata. Almeno tre i motivi.
Il primo è che c'è un problema di credibilità. Ciò che ha permesso negli Anni 90 di ridurre la spesa pubblica in Italia è stata la riduzione degli oneri sul «terzo debito pubblico del pianeta». Abbiamo avuto meno spesa per interessi sul debito (circa 7 punti in meno di Pil) grazie al «voto di fiducia» espresso dagli investitori nei confronti del nostro risanamento fiscale. Oggi il clima sta cambiando. La perdita di fiducia non è un fatto graduale, avviene in modo drammatico, improvviso. Diventa più probabile se diamo segnali che rafforzano le preoccupazioni degli investitori, con promesse di tagli fiscali che minacciano di creare altro deficit. Le motivazioni del downgrading di Standard & Poor's fanno riferimento proprio al prospettato taglio delle tasse in disavanzo.
Il secondo motivo è che non sarà facile trovare qualcuno che accetti con consapevolezza di ciò che l'attende l'incarico di ministro dell'Economia, con una tantum per due punti di Pil da rimpiazzare, sapendo a priori di dover comunque tagliare le tasse. Sarebbe come impegnarsi a guidare un Tir in discesa senza freni. E di una solida guida dell'economia c'è bisogno al più presto per evitare la perdita di controllo sulla spesa. Ogni giorno che passa senza direzione tecnica della politica economica allontana di settimane ogni sforzo di programmazione. Speriamo di essere smentiti da un Dpef sempre più atteso.
Infine il terzo motivo: la politica del «meno tasse a tutti i costi» legittima la politica di bilancio in «zona Cesarini», i provvedimenti che riducono la trasparenza dei conti pubblici (le cartolarizzazioni), che impongono nuovi balzelli destinati a gravare sui consumatori (come le tasse sulle riserve tecniche delle assicurazioni), che cambiano le regole in corso d'opera (tagliando i fondi del bonus occupazione) sottraendole di fatto al controllo democratico. Esattamente gli stessi difetti che si imputavano ieri alle regole rigide del Patto di Stabilità. E' un'invasione notturna dello Stato, negli incubi di nuove alchimie fiscali, di confische, che ritardano i piani di investimento delle famiglie (per non parlare di chi fa impresa).
E' giusto tagliare le tasse, ma conta come lo si fa. Occorre stabilire dove ci vuole meno Stato e dove, magari, di più. Tra i tanti libri bianchi stilati nelle ultime legislature, ne manca uno essenziale: un documento con tanti segni meno, con un titolo impegnativo: «Cosa tagliare?».
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