Da La Repubblica del 20/07/2004

Dopo le rivolte il presidente palestinese nomina un altro capo della polizia. Ma è sempre un uomo della vecchia guardia

Arafat ci ripensa, via il cugino

Le Brigate Al Aqsa non cedono: "Senza riforme la protesta continuerà"

Le nuove milizie palestinesi attaccano "quelli di Tunisi" "burocrati e corrotti"
Il premier Abu Ala prende le distanze dal raìs ma per ora non si dimette

di Alberto Stabile

GERUSALEMME - Nel carosello impazzito delle nomine con cui Arafat cerca di arginare la crisi c´è chi entra e c´è chi esce, spesso senza neanche il tempo di sistemarsi sulla poltrona. Meno di 48 ore erano trascorse da quando il raìs aveva nominato il cugino, Mussa Arafat, a capo supremo della Sicurezza generale, che il leader palestinese s´è dovuto rimangiare l´investitura. Un colpo di telefono ed ecco il Brigadiere generale Abdel Razek al Majaide pronto a rimpiazzare il silurato. Un altro dirigente della vecchia guardia, un´altra nomina provvisoria, fino alla prossima esplosione di violenza.

Neanche la scelta di al Majaide sembra, infatti, in grado di sedare la rivolta, né di soddisfare le richieste di avviare una serie riforma degli apparati, secondo quanto stabilito dalla road map, che piovono da ogni parte su Arafat. Primo di tutto perché quella di al Majaide è una non-scelta. Il generale occupava, infatti, quel posto, prima che Arafat lo licenziasse per fare largo al parente. Il quale parente resta comunque a capo dell´Intelligence militare. Un gioco delle tre carte.

Ma anche un gioco estremamente rischioso. «Questa decisione - hanno, infatti, avvertito i miliziani delle Brigate Al Aqsa che hanno sin dall´inizio cavalcato la rivolta - è solo polvere negli occhi, un modo per l´amministrazione nazionale di evitare di procedere a riforme e cambiamenti». Conclusione-minaccia: «La protesta continuerà».

Anche se costituiscono una formazione che pratica il terrorismo e, specie in Cisgiordania, godono di un alto grado di autonomia, non bisogna dimenticare che le Brigate Al Aqsa sono una filiazione del Fatah. Esse esprimono in modo esasperato un malessere diffuso nel leadership palestinese dei territori e fra i cosiddetti Tanzim, i dirigenti territoriali del Fatah, i quali, con la costituzione dell´Autorità palestinese, si sono visti emarginati dal clan di Tunisi, cioè dalla burocrazia politica e militare sbarcata con Arafat dopo gli anni dell´esilio tunisino. Nella ribellione di questi giorni c´è anche questa componente.

Non a caso, sin dall´inizio della rivolta, uno dei dirigenti associati ai Tanzim, il ministro che si occupa delle decine di migliaia di palestinesi reclusi nelle prigioni israeliane, Khadura Fares, è stato chiarissimo: «Chi non è in grado di sopportare le responsabilità che impone la crisi, deve farsi da parte e lasciare che altri occupino quel posto».

Appelli perché Arafat avvii una riforma seria degli apparati giungono anche dall´Europa, dalla Casa Bianca, dall´Egitto, dall´Inghilterra, potenze e paesi direttamente impegnati a trovare una soluzione al conflitto. Ma il raìs, non da segni d´aver colto il messaggio. Invece che confrontarsi con la realtà, vede congiure dappertutto. Alla fine, l´immagine che offre di se è quella di un leader impotente, abile a rimestare nel caos, ma in fondo privo di un disegno, di una strategia.

Persino Abu Ala, che pure fa parte della vecchia guardia, s´è sentito in dovere, ieri, di criticare duramente, ancorché con toni garbati, Arafat. Per cominciare, il premier palestinese ha voluto precisare che non ha ritirato le dimissioni, anche se nel drammatico faccia a faccia di sabato il raìs gli ha urlato che considerava le dimissioni del premier, «inesistenti».

Sembra, cioè, che soltanto la gravità del momento impedisca al primo ministro di andarsene sbattendo la porta, ma è indubbio che Abu Ala abbia voluto prendere le distanze dalle non-scelte fatte da Arafat in queste ore.

Il premier palestinese ha poi abbozzato un rapido promemoria di ciò che andrebbe fatto, e che Arafat non ha fatto: «È tempo per le nostre istituzioni di funzionare efficacemente. È tempo di mettere le persone giuste al posto giusto». Altro che cugini, parenti e generaloni da repubblica delle banane pieni di mostrine e medaglie coniate ad hoc.

Da politico capace di guardare avanti, non a caso Abu Ala fu a suo tempo uno dei protagonisti del negoziato di Oslo, il primo ministro che da nove mesi invano reclama maggior potere, ha mandato un messaggio di saggezza ai rivoltosi di Gaza: «Il troppo è troppo. Questa guerra non la vincerà nessuno». E, soprattutto, ha voluto impartire ad Arafat, chiamandolo familiarmente col nome di battaglia di Abu Ammar, una lezione di realismo:» Vorrei dire alla direzione palestinese e ad Abu Ammar che nessuno a Gaza o altrove è contro di lui».

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