Da La Repubblica del 03/09/2004

Bilancio di due convention: tra repubblicani e democratici scompare la politica, rimangono le offese

Pianeta America, la nuova era lo scontro politico diventa totale

Neppure negli anni di Nixon o Reagan un congresso di partito aveva dedicato tanto alla demolizione dell´avversario

di Vittorio Zucconi

NEW YORK - L´ignaro viaggiatore intergalattico che avesse assistito ai congressi del partito democratico e repubblicano americani, avrebbe ragione di tornare oggi sul suo lontano pianeta con un´immagine alla rovescia dell´America. Dopo avere assistito alla mite, prudente, ultra-buonista Convention democratica di Boston in luglio, e ora alla rabbiosa, ringhiante, biliosa Convention repubblicana qui a Manhattan, avrebbe dovuto concludere che John Kerry è il presidente in carica, e George Bush lo sfidante. Che i Repubblicani sono all´opposizione e i Democratici al governo. Ma fino al discorso finale del Presidente ieri sera, che ha dovuto usare toni più maturi, ricordandosi finalmente di essere lui il responsabile dello stato e del governo.

Neppure negli anni dei più controversi leader e presidenti, i tempi dello «sporco» Nixon, dello «sporcaccione» Clinton, dell´»attore di serie B» Reagan, delle grandi figure capaci di suscitare esecrazione e adorazione, un congresso si era dedicato per quattro giorni e per centoventi oratori alla ininterrotta, maniacale, furiosa demolizione»ad personam» dell´avversario, di Kerry. Quella «hate fest», l´orgia dell´odio per Bush che la macchina mediatica della destra aveva preannunciato per la Convention democratica con una efficace guerra preventiva, non si è materializzata, cedendo all´invito di Kerry di «rinunciare agli attacchi personali». Si è manifestata invece sotto la volta del Madison Square Garden, tra il pubblico e gli oratori di un partito che il padre del Bush al potere, George il Vecchio, aveva invitato a essere «kinder and gentler», più gentile e garbato. Questo, evidenziato dal Congresso, è il fatto nuovo della storia politica americana dopo il 9/11: la radicalizzazione del moderatismo.

I Democratici, spaventati dal timore di apparire estremisti e giocarsi le simpatie del «sacro Gral» della politica contemporanea, il mitico «centro», sono caduti a piedi pari nella trappola dei Repubblicani e della loro «macchina mediatica». Hanno fatto i bravi ragazzi, ignorando che gli altri non avrebbero avuto alcuna esitazione nel fare quello che avevano rimproverato agli altri, demonizzare Kerry e trasformare il loro congresso in un baccanale di «Kerry bashing», di randellate sullo sfidante. Soltanto per 19 volte, e nei discorsi marginali pronunciati quando soltanto i parenti stretti dell´oratore li ascoltano dall´aula e le telecamere sono spente, i Democratici hanno citato il nome di Bush, a Boston. Sono state invece, calcola il New York Times, ben 89 in tre giorni le occasioni nelle quali i repubblicani hanno fatto il nome del senatore del Massachussets e sempre accompagnate da sarcasmo e da dileggio. Non c´è stato comiziante, dal più oscuro politicante del MidWest al vice presidente Cheney al trombone voltagabbana della Georgia, il senatore democratico Miller chiamato per le sue mille giravolte ideologiche «Zig Zag Miller», che non abbiano martellato sulle presunte debolezze e oscillazioni di JFK.

La squadra che avrebbe dovuto attaccare perchè partiva con lo svantaggio dello sfidante si è lasciata intimidire e ha usato il fioretto olimpico. La squadra che avrebbe dovuto difendersi, portando al voto di novembre il sanguinoso pasticcio iracheno e una situazione economica in claudicante ripresa e appesantita da un deficit fiscale altissimo, ha intelligentemente e cinicamente attaccato, appunto per non dover rispondere dei propri rovesci. Lo ha fatto con la clava di Conan the Governor, lo Schwarzenegger che ha accusato i democratici di essere un partito «socialistic» (sic) e composto di «girlie men», di femminucce, sotto lo sguardo imbarazzato della moglie e nipote del «socialista» John Kennedy, la signora Maria Shriver. Poi ha menato fendenti con la volgarità di «Zig Zag Zeller», che fu membro attivo del Ku Klux Klan, poi grande sostenitore di Clinton nel 1992 e oggi capace di dire che «Kerry andrebbe a chiedere a Parigi il permesso di difendere l´America» (ululati prolungati).

Il battito della clava repubblicana sul tamburo Kerry aveva lo scopo ovvio di demonizzare il nemico per nascondere la mancanza di una proposta seria, di un´agenda per il futuro che neppure il discorso di Bush ha tracciato in modo credibile oltre le solite promesse di «compassione» e di meno tasse. Gli oratori repubblicani avevano nominato la parola «jobs» posti di lavoro, prima preoccupazione nazionale, appena 28 volte in tre giorni, contro le 127 dei democratici. In compenso, di «guerra» i repubblicani hanno parlato 45 volte e di «freedom», di libertà, 36 volte, il doppio dei democratici (17), appropriandosi di una parola e di un concetto che la propaganda della destra considera come suo monopolio esclusivo.

Questa convention ha anche liberato, o rivelato in tutta la sua forza, l´incarognimento del discorso politico nazionale, il grumo di odi irrisolti e chauvinistici che oggi avvelena lo spirito americano e che non riesce a trovare altro sollievo che nella promessa di guerra, guerra, ancora guerra. L´acido sprizzato dalla prima Convention repubblicana dopo l´11 settembre scatenerà altrettanta acredine dal fronte dei democratici, se vogliono avere una piccola chance di vittoria. Forse non avrebbe del tutto torto, il nostro viaggiatore intergalattico, nel tornare a casa pensando che il partito dei vecchi moderati al potere è oggi il partito dell´estremismo radicale. E il moderatismo, nell´America di Bush, se non è ancora morto, gode di pessima salute.

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