Da La Repubblica del 07/09/2004

Il vero volto dell´Iraq di oggi

Mentre l´attenzione del mondo è puntata su Najaf, l´occidente del Paese è caduto saldamente sotto il controllo dei ribelli

di Paul Krugman

«Tutti vogliono andare a Bagdad, ma i veri uomini vogliono andare a Teheran». Questa la posizione a Washington due anni fa, quando Ahmad Chalabi rassicurava tutti che gli iracheni ci avrebbero accolti con un lancio di fiori. Più recentemente, tra di noi circola uno slogan diverso: «Tutti si preoccupano per Najaf, ma chi è davvero attento si preoccupa per Ramadi».

Sin dalla rivolta di aprile, in effetti, la città irachena di Falluja si è comportata da piccola sgradevole repubblica islamica. Ma che ne è stato del resto del Triangolo sunnita?

Un mese fa il rapporto Knight-Ridder lasciava intendere che le truppe statunitensi stessero effettivamente cedendo molto terreno nelle aree urbane ai rivoltosi. Il New York Times ha confermato giorni fa che mentre l´attenzione del mondo intero è puntata su Najaf, l´Iraq occidentale è caduto saldamente sotto il controllo dei ribelli. I rappresentanti del governo installato dagli Stati Uniti sono stati intimiditi, assassinati o giustiziati.

Altre città, come Samarra, sono anch´esse cadute in mano agli insorti, gli attacchi contro gli oleodotti si vanno moltiplicando e noi stiamo ancora giocando al gatto e al topo con Moqtada al Sadr: il suo esercito del Mahdi ha lasciato Najaf, ma resta saldamente al comando di Sadr City e dei suoi due milioni di abitanti. I rapporti del Christian Science Monitor riferiscono che "da interviste condotte a Bagdad si deduce che Sadr ha posto termine all´assedio conquistando una base in ulteriore espansione e sostenitori più agguerriti di prima".

Per molto tempo chiunque avesse avanzato un´analogia con il Vietnam è stato oggetto di derisione, ma d´altro canto chi è ottimista sull´Iraq ha a mio parere cantato vittoria già tre volte. Prima c´è stata la dichiarazione di "Mission accomplished", missione compiuta, seguita da un´escalation dell´insurrezione. Poi c´è stata la cattura di Saddam, cui ha fatto seguito la cruenta rivolta d´aprile, e infine vi è stato il furtivo trasferimento della sovranità ufficiale ad Ayad Allawi, accompagnata dalla poco plausibile pretesa che questo significasse un passo in avanti, una vera e propria illusione infranta dagli scontri a fuoco di agosto.

Adesso, i più seri analisti che si occupano di sicurezza hanno iniziato ad ammettere che l´obiettivo di un Iraq democratico e filoamericano è ormai fuori portata. Anthony Cordesman del Centro di studi strategici internazionali - di sicuro non è pacifista - scrive che "in Iraq vi sono scarse prospettive di pace e di stabilità prima della fine del 2005, se mai vi saranno". Cordesman pensa tuttora (o per lo meno lo pensava qualche settimana fa) che le probabilità di successo in Iraq sono "quanto meno al 50 per cento", ma quando parla di "successo" si riferisce alla creazione di un governo che "sia pressoché certo di includere il Baath, i religiosi dalla linea dura e i movimenti etnici o le sette che seminano discordia, più di quanto gradirebbe l´Occidente". Ad ogni buon conto, tuttavia, egli incalza gli Stati Uniti affinché predispongano "un piano di emergenza in caso di fallimento".

Fred Kaplan di Slate è ancor più pessimista. Così ha dichiarato di recente: «È molto seccante dirlo, ma potrebbe non esserci soluzione alcuna per il problema iracheno», quindi nessun modo di dar vita a un «regime democratico e stabile, per non parlare di democrazia. Non vi è possibilità di ritirarci senza con ciò precipitare il Paese, la regione e forse anche oltre in un disastro ancora peggiore». Un disastro peggiore? Ebbene sì, chi si preoccupava per Ramadi, ora sta iniziando a preoccuparsi per il Pakistan.

Quale potrebbe essere la soluzione, allora? Riflettiamo: molta parte della politica statunitense in Iraq - consistente nel rimandare le elezioni, nel cercare di escogitare una formula che limiti il semplice governo della maggioranza, e nel cercare di installare come uomo forte prima Chalabi, poi Allawi - può essere considerata un ostinato tentativo di evitare di concedere al Grand Ayatollah Ali al Sistani il suo naturale ruolo di preminenza. I recenti avvenimenti di Najaf, però, hanno dimostrato da un lato l´incredibile influenza del religioso, dall´altro i limiti della potenza americana. Non è pertanto giunto il momento di rendersi conto che potremmo fare molto peggio di Al Sistani, e di concedergli, in sostanza, tutto ciò che egli desidera?

Un´altra riflessione. Il presidente Bush ha dichiarato che i problemi in Iraq sono il prodotto di un "catastrofico successo" imprevisto. Quella catastrofe, invece, era stata prevista da molti esperti. Cordesman ha risposto che i loro moniti sono stati ignorati perché noi abbiamo "il più impotente e più inetto Consiglio per la Sicurezza nazionale della storia americana del dopoguerra", che lascia il controllo della situazione a "un manipolo di ideologi neoconservatori" che "hanno configurato una guerra senza alcuna realistica comprensione della situazione, né un piano per creare la pace".

Bush, che qualche mese fa ha intrapreso un giro in autobus nel Paese incentrato sulla «vittoria nella guerra al terrorismo», lunedì scorso ha ammesso: «Non credo si possa vincere» la guerra al terrorismo. Ciò nonostante non ha cambiato il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, né ha liquidato almeno uno dei ideologi che ci hanno cacciato in questa situazione senza possibilità di successo. Invece di ammettere l´errore commesso, continua fedelmente a tenersi accanto individui che, se ne avranno l´occasione, ci cacceranno in due, tre, molti altri gineprai.
Annotazioni − Traduzione di Anna Bissanti

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