Da Corriere della Sera del 09/09/2004

Che cosa pensano gli abitanti dei due continenti sulle loro relazioni reciproche: oggi il rapporto del German Marshall Fund

Europa-Usa: ora l’Atlantico si restringe. Ma resta un oceano

di Sergio Romano

Nel 1972, in occasione del venticinquesimo anniversario del Piano Marshall, il Bundestag ricordò l’avvenimento con un gesto generoso: la creazione di una fondazione americana finanziata con capitale tedesco per lo studio e la valorizzazione dei rapporti tra l’Europa e gli Stati Uniti. Fu stanziata la somma di 150 milioni di marchi e fu deciso che sarebbe stata versata in quindici annualità. Nacque così, mentre il presidente degli Stati Uniti era Richard Nixon e il cancelliere tedesco Willy Brandt, il German Marshall Fund. E’ difficile immaginare una istituzione che rappresenti in modo altrettanto tangibile i sentimenti di solidarietà atlantica e i legami di amicizia che univano allora la Germania agli Stati Uniti. Trentadue anni dopo, il quadro è alquanto diverso. I rapporti transatlantici sono usciti malconci dalla crisi irachena e la Germania, in particolare, è stata trattata dalla presidenza Bush, fra il 2002 e il 2003, come un amico infedele, ingrato e dispettoso.

Nato per promuovere l’amicizia euro-americana, il German Marshall Fund ha reagito al minacciato divorzio dei suoi genitori cercando di capire che cosa stava succedendo. Insieme alla Compagnia di San Paolo, allo Iai (Istituto affari internazionali) e alla Fondazione Luso-americana (un’organizzazione indipendente portoghese) ha scattato una radiografia delle relazioni tra Europa e Stati Uniti con un grande sondaggio, molto più raffinato e approfondito di quelli con cui i partiti e gli uomini politici tastano il polso della pubblica opinione. Il primo rapporto è apparso un anno fa e segnala l’esistenza di una evidente frattura. Un secondo rapporto pubblicato in questi giorni, che viene presentato oggi con una tavola rotonda allo Iai, segnala qualche miglioramento. L’America è meno arrabbiata con la vecchia Europa. L’Europa auspica una maggiore collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico. I due vecchi amici hanno la sensazione di essere minacciati da uno stesso pericolo e sono convinti di avere gli stessi valori. E nessuno dei due ha una particolare considerazione per le Nazioni Unite. Ma la maggioranza degli europei disapprova la politica di Bush, è convinta che la guerra irachena sia stata un errore, pensa che il conflitto abbia reso il terrorismo più insidioso di prima e soprattutto che il mondo, se l’Unione fosse anch’essa una superpotenza, sarebbe migliore.

Vi sono fra i Paesi europei alcune differenze, soprattutto sull’utilità del ricorso alla forza e della presenza militare in Iraq. Ma alle divisioni intra-europee corrispondono altrettante divisioni nella società americana.

Il rapporto suggerisce due considerazioni. In primo luogo le divergenze fra l’Europa e gli Stati Uniti appartengono alla storia dei rapporti transatlantici dopo la fine della seconda guerra mondiale. Se avesse cominciato a fare sondaggi nell’anno stesso della sua fondazione, il German Marshall Fund avrebbe registrato durante gli anni Settanta almeno tre punti di frizione: la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, su cui gli Stati Uniti furono agli inizi ostili e diffidenti, la guerra del Vietnam e la risposta della Nato all’installazione di nuovi missili sovietici nei territori occidentali dell’Urss. E’ vero che i missili americani Cruise e Pershing furono chiesti dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, con l’appoggio di Francesco Cossiga. Ma parecchi milioni di europei scesero in piazza per protestare contro il militarismo americano.

Gli anni Ottanta non andarono meglio. Se qualcuno pensa che il giudizio della maggioranza degli europei su George W. Bush sia troppo severo, cerchi di ricordare il modo in cui Ronald Reagan venne accolto da questa parte dell’Atlantico. La sua politica fu giudicata guerrafondaia e l’invasione di Grenada nel 1983 una intollerabile manifestazione di arroganza. Persino la signora Thatcher, in quella occasione, dovette reprimere un moto di rabbia e d’indignazione.

Nulla di nuovo sotto il sole? Fino a un certo punto. Le divergenze euro-americane sono sempre esistite, ma gli effetti sono stati costantemente attenuati dall’esistenza di una minaccia comune. Dopo la fine della guerra fredda un politologo russo, Georgij Arbatov, disse ironicamente a un collega americano: «E adesso, dopo avere perduto il nemico, che cosa farete?».

La scomparsa della minaccia ha avuto molti effetti. In primo luogo ha accentuato l’autoreferenzialità degli Stati Uniti, vale a dire la loro propensione a comportarsi come se ciò che sta bene all’America dovesse andar bene anche per il resto del mondo. Poco importa il colore politico del presidente: dall’inizio degli anni Novanta il Congresso distribuisce sanzioni a chiunque non si conformi agli standard americani e promulga leggi extraterritoriali che dilatano enormemente lo spazio giuridico degli Stati Uniti nel mondo. In secondo luogo la «scomparsa del nemico» permette all’Europa e all’America di litigare senza correre il rischio di regalare un vantaggio al colosso che li minacciava dall’altra parte del sipario freddo. E i litigi, soprattutto in campo economico, sono stati in questi anni straordinariamente frequenti.

Qualcuno potrebbe sostenere che un nuovo nemico, il terrorismo, dovrebbe incoraggiare i due partner a ritrovare l’armonia del passato. E’ vero, ma altri potrebbero ricordare che una delle loro maggiori divergenze verte, per l’appunto, sul concetto di terrorismo globale e sul modo in cui affrontarlo.

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