Da Corriere della Sera del 12/05/2004

L’analisi

E Riina dissolse «l’illusione dc di assorbire la mafia»

Nelle ultime dichiarazioni dell’ex ministro la sintesi del rapporto tra partito e cosche

di Giovanni Bianconi

PALERMO - In piedi davanti ai giudici d’appello ai quali chiede di restituirgli l’onore, l’imputato Calogero Mannino pronuncia le ultime parole del processo, prima della sentenza. Ricorda i suoi contrasti con i cugini Salvo, esattori al servizio della mafia, certificati - dice - nell’ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso a Cosa Nostra firmata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il presidente della corte, Salvatore Virga, ha un moto d’impazienza: «Conosciamo la vicenda in tutti i particolari», borbotta, e Mannino si scusa: «Concludo...». Poi cita un suo intervento a un convegno democristiano del 1983: «Se in passato si poteva coltivare l’illusione dell’assorbimento della mafia, dissi, oggi non è più possibile. La mafia è terrorismo, e se la Dc perde un punto per sconfiggerla, sarà un punto guadagnato...». Poche altre parole e Mannino conclude davvero, la corte si ritira in camera di consiglio.

Passano sei ore e arriva la condanna: 5 anni e quattro mesi per concorso in associazione mafiosa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, pagamento delle spese processuali e perfino quelle del mantenimento in carcere durante la custodia cautelare.

Altro che onore restituito. Una mazzata che l’imputato, ex-onorevole ed ex-ministro democristiano, assolto in primo grado, non si aspettava e che sarà motivata per iscritto entro tre mesi. Ma che forse può trovare una spiegazione proprio in quella frase pronunciata oltre vent’anni fa davanti a una platea democristiana: «L’illusione dell’assorbimento della mafia...».

Per l’accusa che negli anni Novanta ha sostenuto la responsabilità penale di alcuni uomini politici o rappresentanti delle istituzioni - da Giulio Andreotti in giù - indicandoli come mafiosi o complici dei mafiosi, la chiave di volta è proprio nel concetto che Mannino chiamò «assorbimento». Altri dissero «quieto vivere», «coabitazione», «connivenza», finché per i pubblici ministeri non è diventata collusione e infine complicità con i boss di Cosa Nostra. Almeno fino ai primi anni Ottanta, quando parlò Mannino e i corleonesi di Totò Riina presero il comando delle cosche con le armi che uccisero i nemici interni e esterni, riaffermato con le stragi del ’92-93. Per chi ha letto la storia con gli occhiali dei pentiti che hanno raccontato i rapporti tra mafia e politica e ritiene di aver riscontrato quelle deposizioni, tutto ciò s’è tradotto in reati da punire secondo legge; per chi a quelle ricostruzioni non crede, o ritiene che non si possano leggere col codice penale alla mano, non è materia per giudici e tribunali. Al massimo per gli storici.

A dodici anni dalle stragi e dalle prime rivelazioni dei collaboratori di giustizia, dopo tante sentenze di assoluzione e di condanna, il nodo dei «processi politici» alla mafia è sempre lo stesso: come leggere quelle «relazioni pericolose» in Sicilia, nelle quali è incappato anche Mannino attraverso frequentazioni e conoscenze con alcuni «uomini d’onore» di Agrigento e Palermo. Lui si definisce «vittima di un grande intrigo», ma per il pm che ha sostenuto l’accusa sia in primo che in secondo grado (è passato dalla Procura alla Procura generale) «una lettura intelligente e ragionata delle carte, non poteva che portare a questa conclusione».

Cioè alla condanna. E così Mannino è diventato un alleato dei mafiosi, cioè finché è stato seduto in Parlamento.

Prima di lui lo stesso destino di innocente in primo grado e colpevole in appello è già toccato al giudice Corrado Carnevale, poi definitivamente assolto dalla Cassazione, e in parte allo stesso Andreotti: l’assoluzione di primo grado è stata modificata in secondo con la dichiarata prescrizione «per il reato di associazione per delinquere commesso fino alla primavera del 1980», cioè fin quando c’era «l’illusione dell’assorbimento della mafia», per dirla con Mannino. La sentenza Andreotti è in attesa del vaglio della Cassazione, così come quella pronunciata ieri. Ma la stessa Cassazione ha anche annullato l’assoluzione dell’ex-poliziotto Bruno Contrada dopo una condanna in primo grado a dieci anni di carcere, ordinando un nuovo dibattimento tuttora in corso.

L’altalena dei verdetti, insomma, non è una novità, va avanti da tempo e probabilmente non è finita. Forse può considerarsi addirittura fisiologica, in una materia scivolosa e dagli incerti confini. La condanna di Mannino, peraltro, arriva mentre è giunto in dirittura d’arrivo un altro processo «politico», quello al senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri. Per lui i pubblici ministeri si apprestano a chiedere una condanna di almeno dieci anni carcere, e la sentenza della corte d’appello arrivata in un primaverile pomeriggio palermitano sembra fornire nuovi motivi di ottimismo a chi ritiene che a carico di Dell’Utri ci siano più elementi che a carico di Mannino. L’ex-ministro fu assolto in primo grado da un tribunale che per due terzi è lo stesso che giudicherà il senatore di Forza Italia, ma nell’altalena delle sentenze siciliane su mafia e politica nessuno si sente più di abbandonarsi a previsioni.

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