Da La Repubblica del 14/09/2004

Augusta: erano 109 e per loro, dopo lo sbarco, non c´era posto al centro d´accoglienza

Tutti partiti i clandestini "liberati" restano in due, ma sognano Parigi

Tornare a casa a Rawalpindi? Io ho quarant´anni e tre figli ma è qui ormai la mia casa. No, io voglio vivere qui in Francia, ho un amico che mi farà lavorare da imbianchino, come lui
Mi vogliono rimandare nel mio paese, in Pakistan, entro cinque giorni? E come dovrei fare? Non ho soldi, non ho biglietti per il viaggio. Io non ho niente Non ho scelta, devo restare qui

di Attilio Bolzoni

AUGUSTA - Sono spariti tutti. Tutti tranne due pakistani inchiodati nel lettino di un ospedale. Di centoquattro non si hanno più notizie dal tramonto di domenica, quando un funzionario di polizia aveva appena consegnato a ognuno di loro l´«intimazione» a lasciare l´Italia entro cinque giorni. Tre sudanesi li hanno visti in giro con un sacerdote fino a ieri mattina, poi verso mezzogiorno hanno salutato don Giuseppe e sono saliti su un treno, un diretto per Messina. Sono rimasti qui soltanto quei due pakistani di Rawalpindi. Stanno ancora un po´ male di stomaco, sono deboli, storditi, ma anche felici. E molto spaesati, dopo i sei mesi di quel lungo «viaggio» che li ha portati dall´Oriente fino al mondo che sognavano. Sussurra Ranji Hafis, quarant´anni e tre figli: «Tornare a casa? Questa è adesso la mia casa. Qui ho un amico che mi farà lavorare, imbianchino, imbianchino come lui». Qui ad Augusta? «No, no». Qui in Sicilia? «No, noo». Qui in Italia? «No, qui a Parigi, io voglio vivere qui a Parigi». E´ arrivato dove voleva arrivare Ranji: in Europa. E non se ne vuole più andare.

L´ospedale è quello diventato famoso per i bambini malformati, Augusta e i suoi veleni sparsi dal Petrolchimico. Secondo piano, reparto di Medicina generale, stanza numero 5. Eccolo lì disteso sul lettino Ranji, il pigiama azzurro che gli hanno regalato le suore, la faccia stravolta dal poco sonno. E di fronte ha Mohed Nifis, un altro pakistano di trent´anni che vuole fare l´imbianchino a Parigi. E che dice: «Mi vogliono mandare via, mi vogliono rispedire in Pakistan? E come? Non ho soldi, non ho biglietti, non ho niente». Secondo legge Ranji e Mohed e tutti i loro compagni sono uomini liberi fino alla notte tra giovedì e venerdì, poi si dovranno presentare a un posto di frontiera. Lo farete? I due pachistani sorridono, si infilano sotto le lenzuola e fanno finta di dormire.

Erano in 109 l´altra sera quando li hanno scaricati nel porto di Augusta da una nave militare. Tutti maschi, tutti adulti. Palestinesi, pachistani, un paio di marocchini, sudanesi, qualche iracheno e qualche egiziano. Venivano da Lampedusa, dove erano approdati il giorno prima. Il questore di Siracusa Vincenzo Mauro ha telefonato via ministero ai «centri di prima accoglienza» di Sicilia e Calabria, tutti stracolmi. Nemmeno una brandina libera a Caltanissetta, a Trapani, a Crotone, a Lecce e a Foggia. E dall´isola di Lampedusa li avevano portati via perché anche là, in quel «campo» vicino all´aeroporto, oramai non ci entrava più neanche uno spillo. La decisione è stata presa quando la nave militare stava ancora attraccando ai moli di Augusta, ricevere quei 109 disperati e poi consegnare il decreto «di allontanamento dal territorio nazionale» come prevede la Bossi-Fini, articoli 10 e 14 della legge. Appena i clandestini hanno messo piede ad Augusta, li hanno caricati su camion e furgoni, poi li hanno fatti scendere davanti al tendone dove gioca la squadra di calcetto. Pasti caldi offerti dal Comune. Due: quello di sabato sera e quello di domenica a colazione. Il tempo di prendere le impronte digitali, di identificare uno per uno gli uomini venuti dal mare e quei fogli di carta - i decreti di «respingimento» - erano già pronti. Fotosegnalati, schedati e liberati.

I primi a sparire sono stati gli egiziani. Qualcuno li ha visti scivolare lungo la strada che porta alla fermata delle corriere. Erano le 18 di ieri l´altro. Destinazione Catania. Un gruppo di pachistani e di palestinesi hanno chiesto informazioni a passanti sulla stazione ferroviaria. Hanno preso al volo il primo treno per il Nord Italia. Ciascuno di loro sapeva esattamente dove andare, tutti avevano numeri di telefono di amici e parenti in ogni angolo d´Europa. Solo in cinque non sono finiti sotto quel tendone. Tre sudanesi e i due pachistani.

I tre sudanesi sono stati ospiti da padre Giuseppe Mazzotta alla Stella Maris, il ricovero dei naviganti. «Hanno dormito da me per due notti, uno non stava nemmeno troppo bene, zoppicava», racconta don Giuseppe. Gli hanno detto di chiamarsi Mustafà, Adnan e Mohamad. Gli hanno ricostruito vagamente il lungo cammino attraverso il deserto libico e poi la breve traversata da Al Zuwarah fino all´isola di Lampedusa. Gli hanno spiegato che aveva cercato disperatamente l´Europa «per sfuggire a una morte sicura». Don Giuseppe li ha visti per l´ultima volta ieri mattina. «Se ne sono andati, sono partiti anche loro», dice il parroco. Avvistati alla stazione, erano tutti e tre sul binario dove stava per arrivare il treno del primo pomeriggio per Messina.

E così sono rimasti ad Augusta solo quei due pachistani, Ranji e Mohed. Ricoverati per qualche piccolo disturbo gastro-intestinale, già stanno riprendendosi. «Stamattina non avevano più febbre e oggi hanno mangiato per la prima volta, le loro condizioni sono abbastanza buone», spiega Gaetano Scifo, il primario di Medicina che li ha curati. Loro, i pachistani, aspettano. Liberi e con il pigiama azzurro addosso. Anche loro liberi a tempo. Secondo legge.

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