Da Corriere della Sera del 15/09/2004
IL COMMENTO
Rimedi ed esorcismi (contro un’ossessione)
di Beppe Severgnini
Chiunque abbia vissuto in America può confermarlo: la scoperta dell'obesità è, in assoluto, l'esperienza più sconvolgente per gli stranieri in visita. La vista di gigantesche famiglie che s'aggirano nelle shopping malls divorando ciambelle grandi come pneumatici, è ipnotica. Non c'è buona educazione o carità che tenga: a bocca spalancata i visitatori osservano l'America come un affresco di Botero, e capiscono perché viene chiamata The Big Country. L'obesità riempie anche il cervello degli americani, ma in maniera diversa. Gli americani non si fissano, perché sanno già quello che vedrebbero. Ma l'obesità è un'ossessione: la gente ne parla, ci litiga, ne soffre, tenta di redimersi pubblicamente, come dimostra il successo dell'iniziativa di «Usa Today».
Due americani su tre pesano troppo, e tre su dieci sono obesi. Diventeranno quattro su dieci nel 2010: 68 milioni di persone che rischieranno diabete, problemi cardiaci, artrite e diverse forme di cancro. Ogni anno - sostiene l'Us Surgeon General - l'obesità uccide già 300.000 persone, e costa alla società 117 miliardi di dollari.
Inevitabilmente è partita la caccia al colpevole, ritmata dalle uscite dei media (205 servizi in un anno tra Usa Today, New York Times, Abc, Nbc e Cbs), celebrata in alcuni best-seller («Fat Land» di Greg Critser, «Fast Food Nation» di Eric Schlosser) e condita da una serie di deliziose ipocrisie.
Molti consumatori non vogliono capire che è inutile scegliere prodotti con «venti per cento in meno di grassi», se poi ne ingurgitano dieci volte di più; e bevono secchielli di Coca-Cola soltanto perché c’è scritto Diet Coke. L'industria alimentare, dal canto suo, continua a negare l'evidenza: e cioè che esista una relazione tra l'obesità e il consumo sistematico di patatine fritte e hamburger grondanti maionese.
Preoccupata dalla piega che stanno prendendo le cose - ostilità dei media, preoccupazione nelle scuole, azioni legali che ricordano quelle contro il tabacco - la fast food industry è però corsa ai ripari. Ha cominciato a variare i menù e a ridurre le porzioni (da mastodontiche a gigantesche), finanziando anche una campagna di controinformazione, secondo cui i consumatori sono liberi di fare quel che vogliono: se scelgono il fast food, affari loro (date un'occhiata a www.consumerfreedom.com).
In questa contromossa c'è molto cinismo ma anche una certa logica. Gli americani nel 1970 spendevano 6 miliardi di dollari per il fast food. Oggi sborsano 110 miliardi di dollari l'anno: più che per cinema, libri, riviste, giornali, video e dischi messi insieme. Uno si chiede chi glielo faccia fare, e come possano poi lamentarsi quando salgono su una bilancia.
Due americani su tre pesano troppo, e tre su dieci sono obesi. Diventeranno quattro su dieci nel 2010: 68 milioni di persone che rischieranno diabete, problemi cardiaci, artrite e diverse forme di cancro. Ogni anno - sostiene l'Us Surgeon General - l'obesità uccide già 300.000 persone, e costa alla società 117 miliardi di dollari.
Inevitabilmente è partita la caccia al colpevole, ritmata dalle uscite dei media (205 servizi in un anno tra Usa Today, New York Times, Abc, Nbc e Cbs), celebrata in alcuni best-seller («Fat Land» di Greg Critser, «Fast Food Nation» di Eric Schlosser) e condita da una serie di deliziose ipocrisie.
Molti consumatori non vogliono capire che è inutile scegliere prodotti con «venti per cento in meno di grassi», se poi ne ingurgitano dieci volte di più; e bevono secchielli di Coca-Cola soltanto perché c’è scritto Diet Coke. L'industria alimentare, dal canto suo, continua a negare l'evidenza: e cioè che esista una relazione tra l'obesità e il consumo sistematico di patatine fritte e hamburger grondanti maionese.
Preoccupata dalla piega che stanno prendendo le cose - ostilità dei media, preoccupazione nelle scuole, azioni legali che ricordano quelle contro il tabacco - la fast food industry è però corsa ai ripari. Ha cominciato a variare i menù e a ridurre le porzioni (da mastodontiche a gigantesche), finanziando anche una campagna di controinformazione, secondo cui i consumatori sono liberi di fare quel che vogliono: se scelgono il fast food, affari loro (date un'occhiata a www.consumerfreedom.com).
In questa contromossa c'è molto cinismo ma anche una certa logica. Gli americani nel 1970 spendevano 6 miliardi di dollari per il fast food. Oggi sborsano 110 miliardi di dollari l'anno: più che per cinema, libri, riviste, giornali, video e dischi messi insieme. Uno si chiede chi glielo faccia fare, e come possano poi lamentarsi quando salgono su una bilancia.
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