Da La Repubblica del 17/09/2004

Darfur, diecimila morti al mese

Dopo i predoni alluvioni e malattie stanno decimando i profughi

Cascate d´acqua sui ricoveri dei rifugiati costruiti di rami e plastica La terra diventa subito fango
A Kass dopo l´assalto a un convoglio di aiuti le operazioni umanitarie sono state sospese
Le milizie filo-governative non si sono fermate: attacchi e saccheggi proseguono in tutta la regione

di Pietro Veronese

KASS (Darfur, Sudan) - Fiumi, torrenti, cascate di pioggia si abbattono sulla città dei fuggiaschi. In pochi attimi tutto è sommerso: strade, spiazzi, cortili e prima di ogni altra cosa i miseri attendamenti dei profughi. I loro ricoveri fatti di rami e di teli di plastica stanno pigiati gli uni accanto agli altri, stretti all´interno dei muri di cinta delle scuole da dove questa misera umanità rifiuta di muoversi perché teme, all´esterno, di finire nuovamente vittima dei propri aguzzini.

Ma in questo momento il nemico è un altro: l´acqua si infiltra, cola a gocce e a rivoli, la terra diventa fango e gli abiti cenci. I focolari, bagnati, si spengono. I bambini si ammassano al chiuso e si trasmettono ogni sorta di germi. Gli organismi, già debilitati dalla fuga e dalle privazioni, cadono in preda alle malattie. Le piogge sono violente in questa parte del mondo e rendono la sopravvivenza ancor più precaria. Malaria, polmoniti, altre infezioni colpiscono. Per questo le Nazioni Unite denunciano che il tasso di mortalità in questa popolazione fuggitiva - un milione e mezzo di profughi dentro e fuori i confini del Sudan, cioè la metà dei tre milioni di abitanti del Darfur - è dalle quattro alle sei volte maggiore di quello normale, già altissimo. Seimila, diecimila persone muoiono ogni mese di stenti.

Kass è due ore e mezzo di macchina da Nyala, il capoluogo del South Darfur. Novanta chilometri: ma la strada, che pure sarebbe asfaltata, è in condizioni disastrose. Per la prima volta le bande armate che infestano la zona se la sono presa, invece che con gli inermi abitanti dei villaggi, con gli operatori internazionali, inermi anch´essi. Qualche giorno fa c´è stata una rapina: un convoglio dell´Unicef è stato bloccato mitra in pugno e depredato di tutto. Da allora le operazioni umanitarie a Kass sono sospese. Nessuno ci va più. La polizia non garantisce la sicurezza della strada. Quando arriviamo nell´abitato, sotto le nuvole nere della bufera che sta per esplodere, la città appare derelitta, abbandonata. Solitaria era anche la strada, segnata dagli scheletri di villaggi incendiati e abbandonati. La 4x4 che ci ha portato fin qui è l´unica macchina in circolazione. Kass ha 35 mila abitanti; i profughi che vi si stipano adesso sono 42 mila: la sua popolazione è dunque più che raddoppiata. Ma questo coro muto di dolore, in un giorno come questo, non ha nemmeno un interlocutore.

Prendiamo Kass a simbolo dell´abbandono del Darfur.

Il Darfur continua a morire. Continua la guerra, continuano a fuggire dai villaggi migliaia di persone che giorno dopo giorno raggiungono i campi profughi, ingrossando i totali. Continua l´emergenza umanitaria, con il crescente apparato delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative in perenne affanno, all´interminabile rincorsa di una inesausta, dolente richiesta di aiuto.

Le pressioni internazionali sul governo sudanese, che da mesi vanno moltiplicandosi, sono servite a poco. Sì, hanno aperto le porte del Darfur ai soccorsi, a un manipolo di osservatori africani e a trecento soldati nigeriani e ruandesi che hanno il compito di proteggerli. Alle missioni diplomatiche, governative, parlamentari, umanitarie venute dall´Europa e dall´America a dare una rapida occhiata. Prima, fino al giugno-luglio, questa sconfinata regione occidentale del Sudan, grande da sola quanto la Spagna, era praticamente interdetta a occhi stranieri.

Ma le pressioni non sono giovate a fermare i massacri, a contenere il disastro. Una risoluzione Onu, minacce di sanzioni, accuse americane di genocidio, ultimatum di 30 giorni, un «piano d´azione» concordato col governo e scaduto insieme alla risoluzione a fine agosto, un negoziato di pace tra regime e ribelli in corso ad Abuja, in Nigeria: tutto ciò non è valso a mettere fine alla guerra.

Sotto la pioggia scrosciante di Kass il lembo di un telo si solleva, una mano invitante fa cenno di entrare. Persone che non hanno più nulla, che hanno salvato soltanto la vita - le case bruciate, il bestiame razziato, ogni avere trafugato - offrono ospitalità. Nemmeno un tè, perché il fuoco è spento: soltanto sorrisi. E nel frastuono della gragnola rimbombante sul telo che tutti ci copre, raccogliamo le storie già note dell´orrore del Darfur. La paura suscitata nel villaggio dalle voci che correvano per le contrade. Poi, una notte, l´arrivo dei Janjaweed, cioè i «cavalieri cattivi», secondo un termine vecchio come la storia di questa remota parte dell´Africa, che la stampa internazionale ha più pittorescamente tradotto in «diavoli a cavallo».

I predoni delle tribù arabe, armate dal governo per contrastare i ribelli della Sudan´s Liberation Army (Sla), che piombano sulle capanne incendiando, uccidendo, violentando e saccheggiando. Gli stessi che poi incontri lungo le piste, distesi e sorridenti, mentre spingono al piccolo trotto le mandrie di mucche e di cammelli verso i mercati del bestiame.

«La situazione resta estremamente fluida», dichiara senza ambiguità il dirigente Onu che accetta di riceverci al quartier generale umanitario di Nyala, il capoluogo. Anche se prega di non essere citato perché «noi funzionari delle Nazioni Unite non possiamo parlare di politica». «Fluida» vuol dire che i combattimenti continuano, il fronte resta in movimento e dunque interi villaggi ancora oggi soccombono o prendono, quando ci riescono, la via della fuga. La zona degli scontri tra ribelli e governativi è adesso a sud-est di Nyala, dove si affrontano la tribù dei Bergid, sostenuti dallo Sla, e quella dei Rizeigat, appoggiati invece dal governo. L´epicentro è a Yassin ed è infatti da lì che dichiarano di provenire tutti i nuovi arrivi nel campi profughi intorno alla città, alcune migliaia nell´ultima decina di giorni. C´è poi un secondo teatro di combattimenti, più a nord, tutto intorno alla città di El Fasher.

Il governo sostiene che sono i ribelli a non rispettare gli accordi di tregua e che loro è dunque la responsabilità di questa universale sofferenza.

Ma il racconto unanime fino alla monotonia che si ascolta nei campi profughi è opposto. A costringere la gente alla fuga sono «gli arabi», cioè le bande nomadi alleate del governo.

Le Nazioni Unite hanno definito il Darfur la più grave crisi umanitaria in corso nel mondo. Anche allo sguardo frettoloso del visitatore occasionale queste parole trovano conferma in una spaventosa verità. Se qualcuno dubita ancora della gravità di quanto accade in Darfur, o credeva che la storia fosse finita, si illude di grosso. L´unico interrogativo legittimo, semmai, è perché nemmeno l´America o la volontà pressoché unanime del Consiglio di Sicurezza dell´Onu siano riuscite a porre fine alla strage.

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