Da La Repubblica del 19/09/2004

Il calvario ignorato del Darfur chi sfugge alle stragi muore di stenti

Dall´Occidente aiuti insufficienti i profughi sono in aumento

A fine agosto è scaduto il periodo di prova accordato al governo per bloccare i predoni

di Pietro Veronese

KALMA, Darfur (Sudan) - A contemplare in un pomeriggio assolato il campo profughi di Kalma, il secondo per magnitudo dell´intero Darfur, ottantamila persone attendate nel nulla, si rimane sgomenti. Salite sul tetto di un camion e non riuscite a vederne la fine, fila dopo fila di teloni di plastica blu, il massimo della protezione che la comunità internazionale riesce a fornire al terrore degli sfollati scampati alle stragi. Ci sono anche serbatoi dell´acqua, latrine, ospedali da campo: tutto questo è fornito dalle organizzazioni umanitarie, dai Medici senza frontiere e Médecins du monde, da Oxfam e Save the Children. Ma il numero degli abitanti di Kalma continua ad accrescersi, segno che la guerra del Darfur non è affatto finita. In maggio erano 19 mila, in giugno 26, in luglio 73 mila, 80 mila in agosto. Il ritmo è rallentato, ma non si è fermato. Ogni settimana si aggiungono mille, duemila persone.

La macchina degli aiuti umanitari è in affanno costante. L´offerta è sempre inferiore alla domanda. Adesso mancano per esempio le zanzariere. La stagione delle piogge sta finendo e questo è il periodo in cui la malaria colpisce più forte. Ma le zanzariere sono finite. E´ solo un particolare, ma sommando l´uno all´altro il totale fa 200 milioni di euro che servono disperatamente e nessuno è disposto a donare. Gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro, e di gran lunga, ha pagato il conto di questa catastrofe. L´Europa segue, molto, molto indietro.

Kalma è una vetrina, un campo a quattro stelle dicono cinicamente i volontari. Altrove, migliaia di miserabili giacciono accampati alle porte delle città, vere e proprie discariche umane prive di tutto, anche dei teli di plastica che almeno proteggono dalle piogge. Altri ancora non sono neppure visibili, non sono stati ancora raggiunti dalle missioni umanitarie perché le strade non sono percorribili.

Sono mesi che la comunità internazionale fa la voce grossa sul Darfur, che i media di tutto il mondo ne descrivono le sofferenze. Ci sono state minacce e ultimatum. Le nostre opinioni pubbliche si sono trastullate con l´idea che tanto rumore avesse infine portato la crisi sotto controllo, che gli orrori del Darfur fossero cosa passata e restasse soltanto da gestire l´onda lunga dell´umanitario. Così non è. In privato, nelle belle case di Khartoum, i diplomatici occidentali e i responsabili delle agenzie Onu maledicono la doppiezza degli interlocutori sudanesi, gli impegni disattesi e la consumata capacità di mentire delle controparti ufficiali. I finti disarmi delle milizie, i tagliagola riciclati come agenti di polizia, i presunti arresti dei criminali di guerra, le intimidazioni dei testimoni sopravvissuti, il disprezzo per le povere donne violentate nei campi e nei villaggi e condannate a non ottenere giustizia e nemmeno rispetto o un poco di commiserazione, malgrado la nomina di commissioni che dovrebbero occuparsi proprio dei loro casi. Ma poi nei rapporti ufficiali prevale la logica del realismo politico. I ponti non vanno tagliati, il dialogo deve restare aperto.

A fine agosto è scaduto il periodo di trenta giorni che era stato accordato al governo di Khartoum per adottare una serie di misure urgenti. Inviati Onu, ambasciatori, funzionari delle agenzia internazionali sono tornati in Darfur per verificare quanto fosse stato compiuto. Hanno assistito a una cerimonia di consegna delle armi da parte dei miliziani filogovernativi che per mesi hanno terrorizzato al popolazione: ma nessuno può garantire che il giorno dopo quelle armi non siano state restituite. Hanno avuto la sensazione che un po´ di sicurezza fosse tornata, ma dopo la loro partenza le notizie di scontri si sono moltiplicate. L´unico vero miglioramento è che la burocrazia e le forze di sicurezza sudanesi mettono meno i bastoni fra le ruote alla macchina degli aiuti. La missione è stata giudicata un relativo successo, si è deciso di sottolineare gli aspetti positivi e concedere nuovo tempo al regime.

La ragione di questo comportamento non si può trovare quaggiù, fra i miserabili ricoveri di Kalma o negli occhi delle donne violentate che rifiutano di parlare e nemmeno nelle sepolture delle migliaia di morti - cinquantamila, calcola una stima - abbandonate nella fuga. In parte è l´interesse: la Cina sfrutta il petrolio sudanese ed è pronta a porre il suo veto a sanzioni che la danneggerebbero direttamente. Lo sviluppo industriale cinese vale bene la vita di cinquantamila sudanesi. Anche la Francia ha investito pesantemente nel settore energetico e nelle telecomunicazioni e protegge Khartoum da una condanna internazionale troppo ferma.

Ci sono poi considerazioni geopolitiche. Una crisi del potere centrale a seguito di una campagna internazionale spaventa le diplomazie europee. Il Sudan, che non è mai stato unito ed è anzi spaccato in due da una guerra civile (che però aveva finora risparmiato il Darfur), potrebbe implodere. Ci sarebbe allora in mezzo all´Africa una nuova Somalia, grande però più del Congo. Un devastante focolaio di instabilità. Ogni concepibile alternativa all´attuale potere di Khartoum appare più temibile del presente. L´Occidente protesta, manda aiuti insufficienti, in realtà chiude gli occhi. Il Darfur continuerà a morire.

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