Da Corriere della Sera del 22/09/2004
Sì o no ad Ankara
Turchia dilemma d’Europa
di Franco Venturini
L’Europa non può dire «no» alla Turchia e non lo dirà. Certo, prima la Commissione e poi il Consiglio soppeseranno ogni virgola della loro disponibilità al negoziato di adesione. Il placet europeo sarà legato al completamento delle riforme avviate da Ankara. Molti si impegneranno, anche se nessuno lo ammetterà, a tirare in lungo la trattativa. Ma un rifiuto è fuori questione, perché la Turchia può contare, beninteso senza averlo cercato, sul più convincente degli alleati: il terrorismo islamico.
Mentre ovunque in Occidente ci si interroga sul modo migliore di combattere la piovra stragista, mentre l’Iraq è sull’orlo del caos e pochi sperano ancora di esportare la democrazia in punta di baionetta, respingere la candidatura turca vorrebbe dire per l’Europa tradire le priorità del momento e lasciarsi sfuggire una occasione storica: quella di ancorare stabilmente al modello liberaldemocratico un grande Paese musulmano, dimostrando, più di quanto abbia già dimostrato la Turchia pilastro della Nato, che fede islamica e democrazia compiuta non sono inconciliabili.
Alla portata di un messaggio tanto attuale e alla parallela esigenza di non far esplodere, in Turchia, una pericolosa frustrazione, l’Europa dei Venticinque non potrà sottrarsi. Ma la sua volontà politica ben difficilmente farà scomparire i mille dubbi che accompagnano la candidatura di Ankara, che da anni la frenano e che oggi rischierebbero di bloccarla se non fosse per quel perverso alleato.
La Turchia, osservano gli scettici, è geograficamente (e qualcuno dice anche culturalmente) più asiatica che europea. Il suo ritardo economico promette di divorare gli aiuti regionali dell’Unione, provocando ripercussioni che potrebbero rivelarsi destabilizzanti. Il suo tasso di crescita demografica, ipotizzando che l’ingresso nella Ue possa avvenire attorno al 2015, la trasformerebbe in superpotenza comunitaria nel Parlamento europeo e anche nel Consiglio se la nuova Costituzione sarà stata nel frattempo ratificata. Il partito del premier Tayyip Erdogan è moderato, ma potrebbe riscoprire l’islamismo militante delle sue origini. Le riforme democratiche prevedono il ritorno dei militari nelle caserme, ma dalla rivoluzione di Atatürk sono sempre stati i militari a vigilare sulla secolarità dello Stato. Dopo l’adesione di Ankara l’Europa si scoprirebbe confinante con Iraq, Iran e Siria, diventando più permeabile al terrorismo e rischiando contagi sgraditi. Dalla Turchia diventata socia a pieno titolo potrebbero giungere ondate migratorie temute soprattutto in Germania, dove il governo esita e la Cdu è dichiaratamente contraria al futuro allargamento.
L’elenco potrebbe continuare. Ma non occorre andare oltre per capire che le vere questioni superano di molto il contrasto (forse avviato a soluzione) sul nuovo Codice penale turco che sanzionerebbe l’adulterio. E che a tenere banco tra i fautori della «sindrome ottomana» non è nemmeno il concetto di una Europa multietnica e multireligiosa, benché da un Vaticano già deluso dal mancato richiamo alle radici cristiane dell’Europa continuino a giungere contrarietà «personali» alla cooptazione di Ankara.
Piuttosto, le inquietudini che affliggono alcune capitali dell’Unione (non Londra, e nemmeno Roma) hanno a che fare con l’idea di Europa che si vuole affermare, mettono in gioco le superstiti ambizioni di costruire una comunità integrata e attiva sulla scena internazionale nella quale la Turchia potrebbe avere difficoltà a inserirsi. Al punto che qualcuno, e non soltanto in Francia, guarda con sospetto il forte appoggio Usa all’adesione turca.
Si capisce allora perché l’obbligatorio «sì» alla Turchia sia destinato a rendere più acuta la crisi identitaria che l’Europa già vive. Ma dopo il «sì» al negoziato, e ben prima dell’adesione, l’Europa dovrà decidere se adottare il suo nuovo trattato costituzionale. E da questa scelta, che si annuncia difficile, potrebbe nascere l’Unione delle molte velocità, delle avanguardie e delle seconde file. Se sarà questa l’Europa nella quale la Turchia entrerà un giorno, molti timori di oggi perderanno validità: perché gli esami, anche per Ankara, non finiranno mai.
Mentre ovunque in Occidente ci si interroga sul modo migliore di combattere la piovra stragista, mentre l’Iraq è sull’orlo del caos e pochi sperano ancora di esportare la democrazia in punta di baionetta, respingere la candidatura turca vorrebbe dire per l’Europa tradire le priorità del momento e lasciarsi sfuggire una occasione storica: quella di ancorare stabilmente al modello liberaldemocratico un grande Paese musulmano, dimostrando, più di quanto abbia già dimostrato la Turchia pilastro della Nato, che fede islamica e democrazia compiuta non sono inconciliabili.
Alla portata di un messaggio tanto attuale e alla parallela esigenza di non far esplodere, in Turchia, una pericolosa frustrazione, l’Europa dei Venticinque non potrà sottrarsi. Ma la sua volontà politica ben difficilmente farà scomparire i mille dubbi che accompagnano la candidatura di Ankara, che da anni la frenano e che oggi rischierebbero di bloccarla se non fosse per quel perverso alleato.
La Turchia, osservano gli scettici, è geograficamente (e qualcuno dice anche culturalmente) più asiatica che europea. Il suo ritardo economico promette di divorare gli aiuti regionali dell’Unione, provocando ripercussioni che potrebbero rivelarsi destabilizzanti. Il suo tasso di crescita demografica, ipotizzando che l’ingresso nella Ue possa avvenire attorno al 2015, la trasformerebbe in superpotenza comunitaria nel Parlamento europeo e anche nel Consiglio se la nuova Costituzione sarà stata nel frattempo ratificata. Il partito del premier Tayyip Erdogan è moderato, ma potrebbe riscoprire l’islamismo militante delle sue origini. Le riforme democratiche prevedono il ritorno dei militari nelle caserme, ma dalla rivoluzione di Atatürk sono sempre stati i militari a vigilare sulla secolarità dello Stato. Dopo l’adesione di Ankara l’Europa si scoprirebbe confinante con Iraq, Iran e Siria, diventando più permeabile al terrorismo e rischiando contagi sgraditi. Dalla Turchia diventata socia a pieno titolo potrebbero giungere ondate migratorie temute soprattutto in Germania, dove il governo esita e la Cdu è dichiaratamente contraria al futuro allargamento.
L’elenco potrebbe continuare. Ma non occorre andare oltre per capire che le vere questioni superano di molto il contrasto (forse avviato a soluzione) sul nuovo Codice penale turco che sanzionerebbe l’adulterio. E che a tenere banco tra i fautori della «sindrome ottomana» non è nemmeno il concetto di una Europa multietnica e multireligiosa, benché da un Vaticano già deluso dal mancato richiamo alle radici cristiane dell’Europa continuino a giungere contrarietà «personali» alla cooptazione di Ankara.
Piuttosto, le inquietudini che affliggono alcune capitali dell’Unione (non Londra, e nemmeno Roma) hanno a che fare con l’idea di Europa che si vuole affermare, mettono in gioco le superstiti ambizioni di costruire una comunità integrata e attiva sulla scena internazionale nella quale la Turchia potrebbe avere difficoltà a inserirsi. Al punto che qualcuno, e non soltanto in Francia, guarda con sospetto il forte appoggio Usa all’adesione turca.
Si capisce allora perché l’obbligatorio «sì» alla Turchia sia destinato a rendere più acuta la crisi identitaria che l’Europa già vive. Ma dopo il «sì» al negoziato, e ben prima dell’adesione, l’Europa dovrà decidere se adottare il suo nuovo trattato costituzionale. E da questa scelta, che si annuncia difficile, potrebbe nascere l’Unione delle molte velocità, delle avanguardie e delle seconde file. Se sarà questa l’Europa nella quale la Turchia entrerà un giorno, molti timori di oggi perderanno validità: perché gli esami, anche per Ankara, non finiranno mai.
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