Da Corriere della Sera del 25/09/2004

«Lasceremo l’Iraq prima della pacificazione»

Rumsfeld: «Impossibile aspettare che Bagdad sia perfetta. Le elezioni? Saranno parziali». E l’amministrazione si divide

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Gli Stati Uniti potrebbero ritirarsi dall’Iraq prima che il Paese sia stabilizzato. E’ quanto ha dichiarato, a sorpresa, il segretario alla Difesa americano, Donald Rumsfeld, al termine di un incontro con il premier iracheno, Iyad Allawi: «Qualsiasi idea che il Paese possa essere perfettamente pacificato - ha sostenuto il ministro - prima di ridurre le truppe americane e quelle della coalizione è evidentemente irragionevole, perché l’Iraq non è mai stato pacificato e non lo sarà probabilmente mai».

E’ una linea opposta a quella del presidente Bush e del vicepresidente Cheney, che hanno praticamente accusato di tradimento il candidato democratico John Kerry per avere detto le stesse cose. Ma il ministro appare molto sicuro di sé: «Nessun paese vuole truppe straniere sul suo territorio oltre lo stretto necessario - ha spiegato -. Più pesante è la loro impronta e più s’invade la vita altrui. Addestriamo le forze irachene, bisogna trovare un equilibrio».

Le dichiarazioni di Rumsfeld non sono state ben accolte dall’amministrazione Bush. L’altroieri il segretario alla Difesa aveva anche sorpreso tutti ipotizzando lo svolgimento, nel gennaio 2005, di elezioni parziali in Iraq: «Diciamo che se si cerca di indire delle elezioni e queste si possono tenere in tre quarti o quattro quinti del Paese, ma non in altri posti dove la violenza è troppo elevata, ebbene, così sia. Nulla è perfetto nella vita».

La posizione del ministro ha lasciato di stucco la Casa Bianca. All’improvviso Rumsfeld, il falco dell’amministrazione, non mette soltanto in dubbio che le elezioni legittimino Allawi e risolvano la guerra, prospetta anche a breve un inizio di disimpegno americano dall’Iraq. Non è chiaro se Rumsfeld - che non rimarrebbe al governo neppure se Bush fosse rieletto - sia divenuto di colpo un pentito della guerra dell’Iraq come un suo predecessore, Robert McNamara lo divenne della guerra del Vietnam. E’ possibile che voglia semplicemente spingere Bush e Cheney a rivedere la loro strategia.

Ma il suo realismo e il suo candore hanno invertito i ruoli dei membri dell’amministrazione: Dick Armitage, una colomba come il segretario di Stato, Colin Powell, di cui è portavoce, si è trovato a difendere la politica del presidente e del vicepresidente. «Vogliamo assolutamente libere elezioni, aperte a tutti - ha ribattuto il sottosegretario di Stato - e credo che ci saranno. Non si pensa a un voto parziale, non per ora che io sappia. Gli Usa, l’Onu e l’Iraq lavorano all’unisono per l’elezione di un’Assemblea nazionale di 275 membri».

E in campagna elettorale, i moniti di Rumsfeld potrebbero essere d’insperato aiuto a Kerry, che da alcuni giorni accusa Bush e Cheney di mentire sugli sviluppi in Iraq e che ha definito il conflitto «un diversivo» dalla lotta al terrorismo. «Invece di tenere gli occhi puntati su Bin Laden in uno scontro monumentale come la guerra fredda - ha affermato Kerry - si sono precipitati in Iraq, facendo una cattiva scelta».

Non è escluso che Rumsfeld faccia marcia indietro. Ma è certo che Bush non ascolterà il suo consiglio di cercare una via d’uscita prima che accada il peggio. Il Pentagono ha infatti annunciato che a gennaio manderà altri 10.000, 15.000 soldati in Iraq, e forse chiederà rinforzi agli alleati. Il motivo ufficiale è la rotazione delle truppe, ma secondo il Wall Street Journal , un foglio vicino all’amministrazione, nessuna di quelle là distaccate tornerà indietro fino ad aprile: per 3-4 mesi cioè, gli effettivi americani salirebbero a 148-153 mila uomini contro gli attuali 138 mila.

Bush scommetterebbe sulla loro capacità di consentire un più o meno regolare svolgimento del voto e di contenere la prevista reazione dei terroristi e degli insorti. Le elezioni irachene di gennaio si preannunciano decisive per Bagdad e Washington.

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