Da Corriere della Sera del 07/10/2004
Ambizioni e cadute. I giorni grigi di Chirac
di Massimo Nava
PARIGI - Il presidente Jacques Chirac va in visita in Cina. Porta in dote Airbus, Tgv, centrali nucleari, il fior fiore di un «sistema Paese» solido, che vuole superare Germania e Italia nei rapporti con Pechino. La Cina è un asse strategico di quella visione multipolare che la Francia persegue dopo la crisi irachena. (Nella foto Reuters, Chirac in Vietnam, prima tappa del viaggio in Asia) CONTINUA A PAGINA 11
Visione che Chirac ha difeso all'Assemblea dell'Onu, raccogliendo applausi e consenso. Visione che ispira la diplomazia di Parigi, nella convinzione che il dialogo fra culture sia la strada per affrontare grandi problemi ed emergenze.
Ma il successo di Chirac sulla scena internazionale, sull'onda di valori che appartengono al Dna della Francia, ha il suo contrario in patria, dove la girandola di gaffe, polemiche e atteggiamenti tutt'altro che limpidi ridicolizza l'immagine che il Paese pretende di offrire. La vicenda degli ostaggi è emblematica di questo solco fra ambizioni e risultati, modelli teorizzati e loro messa in pratica. Una missione parallela, maldestramente montata da un deputato e qualche spione, forse segretamente avallata dal potere politico, si è risolta in un «fiasco» (anche i francesi usano questa parola!), che mette alla berlina le lezioni di diplomazia filoaraba, anche perché è facile il confronto con la liberazione degli ostaggi italiani.
Orgogliosi nel ribadire la giustezza della linea seguita, i francesi sono i primi a flagellarsi sulle falle del sistema (dove è finito lo Stato?, si è chiesto Le Monde ) e sulla ricerca di spregiudicate scorciatoie che rivelano, alla faccia dei principi, una bella dose d'ipocrisia.
Forse un riferimento ad altre recenti vicende apparirà superficiale.
Eppure qualche cosa insegnano. Come considerare la «soluzione» del caso Battisti: lezioni di democrazia e di diritti umani da parte della sinistra, responsabile ripensamento della destra e fuga dell'interessato sotto gli occhi della polizia. In quale contesto di approssimazione inserire il crollo del più avveniristico terminal dell'aeroporto appena inaugurato? Come valutare la rissa nella sinistra, scoppiata per le ambizioni personali di uno dei suoi leader, Laurent Fabius, che rischia di far pendere il Paese dalla parte di un umiliante no al referendum sulla Costituzione europea? Come spiegare, se non con fantasmi irrisolti, l'isterica e precipitosa condanna di atti di antisemitismo poi rivelatisi falsi? E che senso dare all'euforico annuncio di un'imminente liberazione degli ostaggi quando la diplomazia non aveva alcuna certezza? Da tempo, intellettuali ed economisti s'interrogano sul «declino» del sistema. Uno dei più acuti, Nicolas Baverez, ne ha individuato le cause nella difficoltà di adattarsi alle trasformazioni planetarie, nella resistenza alle riforme del modello statuale verticistico e nella cecità della classe politica che difende il modello per perpetuare se stessa. Di qui la schizofrenia fra ambizioni internazionali e peso specifico, performance del settore privato e incrostazioni del pubblico, attese dei cittadini e incapacità del potere di interpretarle. La tesi del declino non è recente, ma il cortocircuito del sistema sembra oggi più evidente perché si è prodotto nel suo perno strutturale, la presidenza della Repubblica e la lotta per la successione, troppo anticipata, troppo diffusa a tutti i livelli della società, troppo spettacolarizzata per non avere effetti devastanti anche sull'immagine di compattezza e determinazione dello Stato.
Nell'attesa dell'uomo nuovo, che il circo mediatico ha già individuato in Nicolas Sarkozy, discepolo ribelle di Chirac, la «monarchia» francese perde autorità e legittimità e il Paese finisce per specchiarsi nell'impasse di una campagna elettorale permanente che dilapida energie, condiziona partiti e girandola di posti di comando, influenza la vita politica e persino la diplomazia, sottomette le istituzioni ai sondaggi e quindi al traguardo finale.
Chirac recupera all'estero il prestigio che si consuma in patria, ma non sempre il gioco di prestigio riesce. La malattia francese non è il declino, ma questo agitarsi autistico attorno all'Eliseo.
I francesi osservano lo spettacolo sempre più da lontano. Si compiacciono di una certa idea della Francia ma detengono il record europeo di consumo di ansiolitici. I giornali grondano di analisi sulla «malattia» del Paese e ne elencano sintomi contraddittori: crisi dell'autorità, iperpotenza americana, mandarinato della classe dirigente, politica spettacolo. Ma i francesi li leggono sempre meno. Anche il prestigioso Le Monde , troppo elitario e parigino, fa i conti con il Paese reale. E anche questo è un segno dei tempi.
Visione che Chirac ha difeso all'Assemblea dell'Onu, raccogliendo applausi e consenso. Visione che ispira la diplomazia di Parigi, nella convinzione che il dialogo fra culture sia la strada per affrontare grandi problemi ed emergenze.
Ma il successo di Chirac sulla scena internazionale, sull'onda di valori che appartengono al Dna della Francia, ha il suo contrario in patria, dove la girandola di gaffe, polemiche e atteggiamenti tutt'altro che limpidi ridicolizza l'immagine che il Paese pretende di offrire. La vicenda degli ostaggi è emblematica di questo solco fra ambizioni e risultati, modelli teorizzati e loro messa in pratica. Una missione parallela, maldestramente montata da un deputato e qualche spione, forse segretamente avallata dal potere politico, si è risolta in un «fiasco» (anche i francesi usano questa parola!), che mette alla berlina le lezioni di diplomazia filoaraba, anche perché è facile il confronto con la liberazione degli ostaggi italiani.
Orgogliosi nel ribadire la giustezza della linea seguita, i francesi sono i primi a flagellarsi sulle falle del sistema (dove è finito lo Stato?, si è chiesto Le Monde ) e sulla ricerca di spregiudicate scorciatoie che rivelano, alla faccia dei principi, una bella dose d'ipocrisia.
Forse un riferimento ad altre recenti vicende apparirà superficiale.
Eppure qualche cosa insegnano. Come considerare la «soluzione» del caso Battisti: lezioni di democrazia e di diritti umani da parte della sinistra, responsabile ripensamento della destra e fuga dell'interessato sotto gli occhi della polizia. In quale contesto di approssimazione inserire il crollo del più avveniristico terminal dell'aeroporto appena inaugurato? Come valutare la rissa nella sinistra, scoppiata per le ambizioni personali di uno dei suoi leader, Laurent Fabius, che rischia di far pendere il Paese dalla parte di un umiliante no al referendum sulla Costituzione europea? Come spiegare, se non con fantasmi irrisolti, l'isterica e precipitosa condanna di atti di antisemitismo poi rivelatisi falsi? E che senso dare all'euforico annuncio di un'imminente liberazione degli ostaggi quando la diplomazia non aveva alcuna certezza? Da tempo, intellettuali ed economisti s'interrogano sul «declino» del sistema. Uno dei più acuti, Nicolas Baverez, ne ha individuato le cause nella difficoltà di adattarsi alle trasformazioni planetarie, nella resistenza alle riforme del modello statuale verticistico e nella cecità della classe politica che difende il modello per perpetuare se stessa. Di qui la schizofrenia fra ambizioni internazionali e peso specifico, performance del settore privato e incrostazioni del pubblico, attese dei cittadini e incapacità del potere di interpretarle. La tesi del declino non è recente, ma il cortocircuito del sistema sembra oggi più evidente perché si è prodotto nel suo perno strutturale, la presidenza della Repubblica e la lotta per la successione, troppo anticipata, troppo diffusa a tutti i livelli della società, troppo spettacolarizzata per non avere effetti devastanti anche sull'immagine di compattezza e determinazione dello Stato.
Nell'attesa dell'uomo nuovo, che il circo mediatico ha già individuato in Nicolas Sarkozy, discepolo ribelle di Chirac, la «monarchia» francese perde autorità e legittimità e il Paese finisce per specchiarsi nell'impasse di una campagna elettorale permanente che dilapida energie, condiziona partiti e girandola di posti di comando, influenza la vita politica e persino la diplomazia, sottomette le istituzioni ai sondaggi e quindi al traguardo finale.
Chirac recupera all'estero il prestigio che si consuma in patria, ma non sempre il gioco di prestigio riesce. La malattia francese non è il declino, ma questo agitarsi autistico attorno all'Eliseo.
I francesi osservano lo spettacolo sempre più da lontano. Si compiacciono di una certa idea della Francia ma detengono il record europeo di consumo di ansiolitici. I giornali grondano di analisi sulla «malattia» del Paese e ne elencano sintomi contraddittori: crisi dell'autorità, iperpotenza americana, mandarinato della classe dirigente, politica spettacolo. Ma i francesi li leggono sempre meno. Anche il prestigioso Le Monde , troppo elitario e parigino, fa i conti con il Paese reale. E anche questo è un segno dei tempi.
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