Da Il Manifesto del 15/10/2004

Bush-Kerry nella curva sud degli edili

Il match in diretta tv fra i due candidati visto dalla sezione 310 del sindacato dei Labourers, a Cleveland. Tutto il tifo per lo sfidante democratico, quanto al presidente «non gli farei vendere neppure i tappeti»

di Marco D'Eramo

CLEVELAND (OHIO) - L'atmosfera è da stadio, anche se ci troviamo in un seminterrato. Bordate di fischi accolgono le svicolate di George W. Bush che non risponde mai alle domande del moderatore. Applausi e risate soddisfatte sottolineano le battute di John Kerry nel terzo e ultimo dibattito tra i due candidati alla presidenza, teletrasmesso dall'Arizona. Siamo nella sala conferenze della sezione 310 del sindacato degli edili (Labourers), al 3250 di Euclid Avenue. Le pareti sono ricoperte dagli stemmi barocchi - tentativi di imitazione dell'iconografia massonica - dei vari sindacati, da quello degli ascensoristi a quello degli impermeabilisti (che ricoprono i tetti). Uno schermo gigante tv è stato sistemato davanti alle sedioline di metallo. Il pubblico è costituito da una cinquantina di attivisti sindacali impegnati nella campagna elettorale a favore dei democratici, molti giovani, ragazzi e ragazze, molti neri, molti grassi, come di regola nelle classi inferiori americane, moltissime scarpe da ginnastica, tanti berretti da baseball.

In quest'atmosfera da Roma-Lazio, assistendo al mach tra i tifosi della curva sud, è difficile perciò farsi un'opinione equilibrata di quest'ultimo duello verbale, e dei suoi effetti sull'elettorato americano, e in particolare sugli elettori di questo stato, l'Ohio, che da tutti è considerato decisivo per l'esito del voto del 2 novembre.

Le strategie dei due contendenti sono chiare: ognuno vuole inchiodare l'altro a qualcosa. Il senatore democratico John Kerry vuole inchiodare George Bush agli esiti disastrosi di questi quattro anni di presidenza: la disoccupazione (persi 1,6 milioni di posti in quattro anni), l'impoverimento degli americani (il reddito medio delle famiglie è diminuito in dollari costanti), l'aumento degli statunitensi che non sono coperti da nessuna assistenza sanitaria (45 milioni, 5 milioni in più di quanti Bush ne ha trovati), i faraonici regali elargiti ai ricchissimi (l'1% delle famiglie ha ricevuto sgravi per 180 miliardi di dollari), un deficit pubblico colossale (oltre 400 miliardi di dollari), le discriminazioni nei confronti delle minoranze (l'esorbitante numero di giovani neri e ispanici estromessi dal sistema scolastico), il costo umano (1075 soldati morti e più di 9.000 feriti) e finanziario (120 miliardi di dollari che corrono verso i 200) di un conflitto sbagliato come la guerra in Iraq.

Di fronte a queste contestazioni puntuali, Bush non fa che svicolare: gli si chiede della disoccupazione e lui risponde sulla necessità della formazione permanente; gli si chiede se aumenta il salario minimo garantito (che è fermo da 7 anni a 5,15 dollari - 4,5 euro - l'ora) e lui risponde che bisogna migliorare l'istruzione, tanto che tutti quanti nella sala scoppiano a ridere sardonici.

A sua volta, il presidente uscente repubblicano vuole inchiodare lo sfidante democratico al suo progressismo, lo dipinge come uno che vuole aumentare le tasse a tutti, dice che Kerry si situa all'estrema sinistra dello schieramento politico. Tra i miei giovani tifosi, è difficile giudicare quanto successo abbia questa sua strategia. Tenendo conto che negli Usa ogni stato (grande o piccolo) elegge due senatori, la battuta migliore, e più ficcante, di Bush è quando dice: «Gira la voce che tra i due senatori del Massachusetts, Ted Kennedy è quello conservatore» (Kennedy è lo storico portabandiera dell'ala sinistra dell'establishment democratico). La battuta più crudele Kerry la sfodera invece quando dice: «Sentire questo presidente dare lezioni di responsabilità fiscale è come farmi fare la predica su legge e ordine da Tony Soprano (il mafioso protagonista della più fortunata serie tv degli anni `90, ndr)».Kerry propone misure che sembrano ragionevoli, vuole ristabilire il divieto di vendere liberamente armi a fuoco da guerra (bazooka, mitra...), vuole recuperare soldi abolendo le facilitazioni fiscali alle famiglie con un reddito superiore ai 200.000 dollari l'anno, vuole estendere la copertura sanitaria. Anche se le promesse elettorali sono notoriamente meno affidabili di quelle dei marinai, il programma di Kerry è più progressista, più razionale, più articolato di ciò che propone il centrosinistra italiano. E Bush continua a nascondersi dietro la cortina fumogena di quel che non ha potuto fare a causa dell'opposizione di quei cattivacci di politicanti di Washington.

La natura dei due risalta a proposito della religione. Bush dice: «Prego un sacco. Prego per avere forza, prego per essere saggio, prego per i nostri soldati che soffrono, prego per la famiglia, prego per le mie figliolette ... e amo che in tutto il paese la gente preghi per me e la mia famiglia». Kerry dice: «Io sono religioso, ma sono stato educato a credere in due grandi comandamenti: uno è `ama Dio con tutta la tua forza' e l'altro è `ama il prossimo tuo come te stesso'. E penso che in America ci sia ancora molto da fare per il nostro prossimo. C'è l'America di quelli che hanno e l'America di quelli che non hanno. Il presidente e io abbiamo due modi molto diversi di vivere la nostra fede».

Ancora più equilibrata è stata la risposta di Kerry alla domanda sulla dichiarazione dei vescovi cattolici americani secondo cui è un peccato per un credente votare per Kerry, viste le sue posizioni sull'aborto e sulla ricerca sulle cellule staminali. Risposta: «Rispetto completamente le loro opinioni. Io sono un cattolico. Perciò le rispetto ma, come molti, sono in disaccordo. Credo che non posso legiferare o trasferire ad altri cittadini americani i miei articoli di fede. Non posso imporre per legge i miei articoli di fede a qualcuno che non condivide la mia fede. Credo che la scelta (di abortire o meno) appartiene solo alla donna, a Dio e al suo dottore».

In definitiva, a un occhio spassionato Bush sembra fumoso, e Kerry si staglia come un candidato decente. Agli occhi più partigiani dei miei vicini, Bush appare vuoto come un fiasco scolato. Uno mi dice: «Se fossi un produttore di tappeti, non lo assumerei come rappresentante di commercio». Una ragazza mi dice: «Prima dei dibattiti, Kerry sembrava intelligente, colto, ma Bush era simpatico (likable). Ora è Kerry a essere simpatico». Non ne sarei così sicuro. Per esporre tutti i dati, Kerry parla molto veloce, mentre Bush dice meno cose, più piano, appoggiando di più su ogni parola.

Lo sciorinio di cifre di Kerry può persino essere controproducente perché rafforza la sua immagine di patrizio, intellettuale della Nuova Inghilterra. E devo dire che in un'ora e mezza, il dibattito ha spaziato su tali e tanti argomenti, dai bambini all'Iraq alla polizia, alle discriminazioni positive, che ne esco un po' confuso persino io che seguo questi dibattiti per professione. Immagino quanto possono essere frastornati dei contadini in mezzo alle pianure, soli con i pop corn davanti alla tv. Altrimenti non si spiegano i sondaggi del subito dopo dibattito. La Cnn dà Kerry vincitore a 52 % contro 39 % (ma il margine di errore è + o - 5 %, il che vuol dire che potrebbe anche essere uno schiacciante 57 - 34 oppure uno striminzito 47 - 44), mentre l'Abc lì dà testa a testa, 42 per Kerry, 41 per Bush (con la stessa incertezza; e potrebbe essere 47-36 per Kerry o 46-37 per Bush).

Che importa: quando l'adunanza si scioglie, per gli standard americani è notte fonda e piove su questa città di fabbriche abbandonate e arruginite. Mancano 18 giorni alle elezioni, tutto è ancora in gioco. E prima di salire in macchina, i giovani volontari si riuniscono in cerchio e intonano in coro una melodia beethoveniana, ma le parole sfottono Dick Cheney ed esaltano Kerry. I vestiti sono sciatti, però le voci sono modulate, musicalmente educate, e gorgheggiano pesanti schiaffoni verbali contro i repubblicani.

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