Da Corriere della Sera del 03/11/2004
Chirac non si illude su una svolta radicale alla Casa Bianca
di Massimo Nava
PARIGI - Chiedere oggi ai francesi se avrebbero preferito Bush a Kerry è come chiedere agli esquimesi di scegliere fra il buio e la luce. I sentimenti collettivi, confortati dai sondaggi, sono in sintonia con l'opinione pubblica e il mondo politico, salvo rare eccezioni. L'antiamericanismo un po' stereotipato della tradizione, spesso smentito dallo spessore delle relazioni in tutti i campi, è diventato un sentimento diffuso e profondo che ispira l'azione politica. Un'ostilità peraltro contraccambiata a Washington che tende ormai a considerare la Francia un alleato ostile, quasi il capofila di una moderna riedizione del movimento dei non allineati all'epoca della guerra fredda. Colpa dell'intervento in Iraq, di una diversa visione culturale del mondo e delle questioni internazionali, del tentativo della Francia di dirigere l'orchestra del dissenso e farsi interprete di un modello sociale europeo alternativo.
Nella vittoria di Kerry, la Francia intravede una correzione di rotta, una visione più aperta delle relazioni internazionali, la riduzione della frattura fra Europa e Stati Uniti, un approccio diverso al più drammatico focolaio di crisi, la situazione in Iraq. Un voto contro Bush, ma anche un voto contro il sistema Bush, per quanto rappresenta rispetto ai riferimenti della politica e della società francese, era sognato da numerosi esponenti della sinistra. L'ex ministro della cultura, Jack Lang, ha definito Bush un «petro-president» (con allusione al potere dei petrolieri sulle scelte della Casa Bianca) e vorrebbe ritrovare l'altra America, quella di un'altra visione della società e dell'uomo. Ma la vittoria di Kerry era anche negli auspici della destra e dell'establishment economico e finanziario, nella consapevolezza che l'ostilità danneggia entrambi i Paesi, divide l'Europa e non fa bene agli affari. Un disagio di cui si è fatto interprete il ministro dell'economia, Nicolas Sarkozy, con una missione di successo negli Usa tesa a smussare malintesi. Soltanto l'ala liberale dei gollisti, rappresentata da Alain Madelin, considerava la sconfitta di Bush un pericoloso segnale di debolezza dell'America. Ha tifato per Bush anche l'estrema destra di Le Pen, ma per spirito d'appartenenza conservatrice, essendo anche il leader del Fronte Nazionale contro la guerra in Iraq.
La Francia ufficiale e l'opinione pubblica puntavano su Kerry, ma diversi osservatori e politologi non si facevano comunque illusioni su una svolta radicale della politica americana. Correttivi ci saranno in ogni caso, essendo evidente che la Casa Bianca cerca ormai di coinvolgere gli alleati nella soluzione del disastro iracheno.
Alain Minc spera che si torni a vivere meglio in America, ma è convinto che la frattura fra le due sponde dell'Atlantico non sia questione di presidenti, bensì di trasformazioni planetarie con cui l'Europa non ha ancora fatto i conti. Dominique Moisi avvertiva ieri sera «un segreto desiderio» della rielezione di Bush, una soluzione «più confortevole» rispetto alla necessità della Francia di rivedere le proprie scelte, di dover rispondere a eventuali richieste di coinvolgimento militare in Iraq, di dover assumere nuove responsabilità.
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