Da La Repubblica del 01/11/2004

Il Rais lontano dalla sua terra

di David Grossman

Nel momento in cui l´elicottero giordano con a bordo Yasser Arafat, debole e malato, si è sollevato dal suolo di Ramallah, anche chi ha avversato quest´uomo e lo ha combattuto, ha potuto percepire il simbolismo del momento. Il leader palestinese ha lasciato ciò che è stata la sua principale ragione di vita: la Palestina.

Per questa terra ha lottato decine di anni, trasformandola in una realtà politica al centro dell´interesse mondiale e in un emblema potente e universale della guerra per la libertà e per il ritorno alla propria patria. Arafat, rientrato a Gaza come un eroe dieci anni e tre mesi fa in seguito agli accordi di Oslo, ha lasciato la Palestina pesto e contuso, ma non piegato e sconfitto.

Ma chi è Yasser Arafat? Un eroe per gran parte dei palestinesi e un terrorista per gran parte degli israeliani. Un personaggio enigmatico e sfuggente che anche i suoi collaboratori più prossimi ammettono talvolta di non capire e di non riuscire a interpretarne il comportamento. Un uomo che, secondo le sue stesse parole, «ha sposato la Palestina» e le ha dedicato la vita, negandosi i piaceri del mondo ma non evitando di trasferire sul suo conto bancario in Svizzera milioni di dollari appartenenti all´Autorità palestinese. Un idealista con un´unica meta da raggiungere - creare uno stato palestinese indipendente - per la quale non ha badato a mezzi, tanto che durante la guerra del 1948 ha ucciso con le proprie mani un palestinese da lui sospettato di tradimento. Un leader che ha guidato combattenti per la libertà in una lotta contro l´occupazione ma ha anche inviato terroristi a compiere attentati contro innocenti. Un funambolo che si è barcamenato (talvolta in modo geniale) tra politici e nazioni, ha violato accordi firmati senza battere ciglio, ha condotto il proprio popolo a risultati incredibili (e in un certo senso ha persino creato e foggiato il popolo palestinese) ma ha anche commesso errori tragici: ha portato sui suoi connazionali grandi tragedie e li ha fatti precipitare nella loro attuale e disperata condizione.

Nel cuore di molti occidentali Arafat suscita sentimenti contrastanti: da un lato rispetto per la sua lotta e la sua determinazione, dall´altro disapprovazione per i suoi metodi, la sua ambiguità e il suo estremismo. I palestinesi la pensano diversamente. Su un palco del Cairo, qualche anno fa, durante la firma di uno degli accordi poi falliti, tra leader israeliani, arabi e occidentali vestiti con eleganza, con stile, sicuri di sé e un tantino arroganti, Arafat spiccava per la sua diversità, la sua trascuratezza, i suoi modi strani e il suo aspetto dimesso. Ma ai palestinesi piaceva così. Perché lì, tra le volpi che governavano il mondo e che possedevano tutto - uno Stato, un esercito, denaro - lui era il profugo nullatenente, l´accattone scaltro che sfruttando con abilità il poco che possedeva, cercava di ottenere per il suo popolo martoriato ciò che per esso rappresentava una necessità vitale.

Cosa succederà ora nei territori dell´Autorità palestinese? Una possibilità decisamente plausibile è che l´anarchia finora, tenuta a malapena a freno dall´autorità simbolica di Arafat, esploda, e vi sia una guerra civile tra fazioni contrapposte ma soprattutto tra i sostenitori di al-Fatah e le organizzazioni islamiche radicali. La tensione infatti è alta e numerosi villaggi e città sono già in balia del terrore esercitato da bande di criminali che cercano di trarre profitto dall´instabilità del potere centrale.

Una seconda possibilità è che il timore di una situazione di caos porti all´unificazione - anche solo momentanea - della popolazione. In questo caso verrà scelto un successore ad Arafat e il nuovo leader tenterà di ricucire gli strappi interni, di resistere alla pressione dell´occupazione israeliana e di riavviare il prima possibile un dialogo con lo stato ebraico.

Ma non c´è da invidiare l´uomo che riceverà nelle proprie mani un popolo diviso e lacerato, segnato da quattro anni di guerra e da trentasette di occupazione. Ed è sintomatico che i palestinesi non abbiano mostrato particolare emozione per la partenza del loro presidente. Pochi di loro, infatti, sono venuti ad accomiatarsi da lui e nelle loro parole si rileva soprattutto apatia, fatalità e la disperazione di chi è abituato ad avere solo nuovi guai da ogni cambiamento.

Israele si trova in una situazione imbarazzante. Finora Ariel Sharon si è servito di Arafat come pretesto per evitare qualsiasi negoziato. «Non abbiamo un partner» è lo slogan che il primo ministro è riuscito - con successo e l´aiuto non indifferente di Arafat e della sua politica di terrorismo - a imprimere nella coscienza della maggior parte degli israeliani e di George Bush. Ora che il suo avversario è uscito probabilmente di scena, quale sarà il nuovo pretesto?

Sostanzialmente Israele avrebbe fatto bene a perseguire una linea politica diametralmente opposta. Infatti solo con Arafat al potere lo stato ebraico aveva un partner con il quale raggiungere un vero accordo. Ora chissà quanto tempo passerà prima che il suo erede riesca a normalizzare la situazione e si senta abbastanza sicuro - dopo aver ottenuto sufficiente autorità ed essersi guadagnato la fiducia dei suoi connazionali - per attuare le difficili concessioni indispensabili per un vero accordo di pace. È possibile che un leader nuovo e insicuro decida di arroccarsi per molto tempo su posizioni intransigenti proprio per dimostrare fedeltà alla causa palestinese e al simbolo della sua lotta: Arafat.

Lo stato ebraico potrebbe scoprire ora, con ritardo, che la scelta di ignorare e umiliare il presidente dell´Olp in questi anni critici, gli ha fatto perdere una grande opportunità. Solo un simbolo infatti può distruggerne un altro. Così come Ariel Sharon, l´uomo che più di ogni altro in Israele viene identificato con la politica degli insediamenti, è l´unico che può, forse, iniziarne lo smantellamento, ecco che Arafat, il simbolo della lotta e della tragedia del popolo palestinese, avrebbe potuto rinunciare alla pretesa su Gerusalemme e sul "diritto del ritorno" dei profughi.

Il condizionale in questo caso è d´obbligo perché il presidente palestinese, come si sa, ha rifiutato caparbiamente ogni compromesso su questi due punti contribuendo così pesantemente al fallimento dei negoziati di Camp David nel luglio del 2000 e allo scoppio della seconda Intifada. Nessuno però può affermare con certezza quale sia la parte da lui effettivamente giocata in quel fallimento. Ehud Barak e Shlomo Ben Ami, i rappresentati israeliani nei negoziati, sono convinti che in quell´occasione Arafat abbia rivelato il suo vero volto e una visione del mondo mitica, simbolica, che non gli concede nessuna elasticità mentale né la capacità di fare concessioni. D´altra parte è possibile argomentare che se i negoziati fossero stati condotti con maggior criterio da parte israeliana, se Barak non fosse stato tanto ansioso di «rivelare il vero volto di Arafat», il risultato sarebbe stato diverso. Non è infatti da escludere che se il leader palestinese fosse riuscito a "estorcere" concessioni importanti a Israele, avrebbe potuto pretendere da milioni di profughi palestinesi di rinunciare al sogno di tornare ai villaggi e alle città da cui erano stati esiliati nel 1948 in cambio del risultato ottenuto.

Ma questa è solo una supposizione che nessuno può confermare o sconfessare. È chiaro che Arafat ha condotto il suo popolo a un passo dalla realizzazione del sogno di avere uno stato ma si è anche reso complice e responsabile dell´errore che ne ha impedito la realizzazione. Vi è un che di tragico in tutto ciò ma forse, ora che Arafat è prossimo alla sua ultima ora, sorride tra sé al pensiero che proprio Ariel Sharon, il nemico che ha tentato più volte di eliminarlo ed è riuscito a convincere gli israeliani e l´America di George Bush di avere a che fare con un impostore, un pazzo e un terrorista, sta cominciando a mettere in atto la parte fondamentale del suo sogno: lo sgombero delle colonie e la creazione di uno stato palestinese.
Annotazioni − Traduzione di Alessandra Shomroni.

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