Da Corriere della Sera del 05/11/2004

Medio Oriente

E i governi arabi preparano lacrime di circostanza

I continui voltafaccia del raís ne avevano appannato la credibilità e il prestigio. Tanti preferivano parlare con i suoi collaboratori. Ora si pensa agli scenari

di Antonio Ferrari

GERUSALEMME - Per le masse arabe il presidente palestinese, in coma profondo e raggiunto dalla morte cerebrale, era e resterà un simbolo: lo amavano perché ne conoscevano i pregi e ne ignoravano i difetti, consegnando gli errori che gli venivano attribuiti a fantasiosi complotti israeliani. Per i leader arabi era, ed è rimasto, un fratello ingombrante e poco affidabile. Una volta, re Hussein di Giordania convocò noi giornalisti al Palazzo reale e disse: «Ho messo la mano nella cesta dei serpenti. Non la metterò più». Per gli equilibri mediorientali era un peso: la Siria lo considerava l’uomo che, avendo scelto la pace separata con Israele nel 1993, aveva di fatto indebolito l’intero mondo arabo; altri, come la Giordania, lo hanno accusato di egoismo, in quanto privo di coraggio politico, refrattario a qualsiasi progetto di riforma e incapace di ascoltare la volontà del suo popolo.

Al di là delle scontate espressioni di dolore e di solidarietà, saranno pochi i leader arabi che piangeranno pensando a un futuro senza Yasser Arafat. I voltafaccia del presidente palestinese ne hanno progressivamente appannato la credibilità e il prestigio. Erano in molti, dietro i sorrisi diplomatici di facciata, ad esprimere irritazione quando il raìs, prima d’essere costretto nel bunker della Mukata, a Ramallah, decideva improvvisamente una visita ufficiale o di lavoro. Tanti preferivano parlare con il felpato Mahmoud Abbas (Abu Mazen), con l’attuale premier Ahmed Qurei (Abu Ala) o con l’elegante ministro degli esteri Nabil Shaat. Non perché ne condividessero sempre la linea politica (dettata da Arafat), ma perché si presentavano senza la presunzione del loro leader, al quale in sostanza interessavano soprattutto due cose: il controllo della cassa e dei servizi di sicurezza.

Ecco perché, dietro un rispettoso silenzio formale, le cancellerie arabe già disegnano scenari per il futuro. Ai vertici, sulla sedia riservata all’Autorità nazionale palestinese, siederà probabilmente un uomo con chiari poteri, che non dovrà più parlare tormentandosi alla sola idea di dover affrontare, subito dopo, gli umori di giornata del suo capo. Politicamente, una leadership senza vincoli sarà quantomeno garanzia dell’assenza di un doppio binario, con il quale, per anni, i capi arabi hanno dovuto fare i conti.

Gli scomparsi re Hussein di Giordania e il presidente siriano Hafez el Assad non hanno mai amato Arafat: il primo perché non dimenticava il Settembre nero, soffriva le scorribande del leader palestinese, e poi era troppo sofisticato per accettarne le mosse spesso incaute e incomprensibili; il secondo, perché si considerava il vero paladino della causa palestinese, e riteneva che l’uomo con la kefiah non avrebbe avuto la forza per sostenerla autorevolmente. I figli dei due leader, che ora sono al potere, re Abdallah in Giordania e Bashar el Assad in Siria, non si discostano molto dalle idee e dagli umori dei rispettivi padri. Con l’aggiunta di vedere Arafat come un uomo del passato, legato a schemi tramontati e a scelte perdenti.

Per amicizia, e forse contando sulla complicità generazionale, il presidente palestinese aveva sempre cercato una sponda politica al Cairo, dove era cresciuto, e soprattutto aveva ottenuto l’aiuto di Hosni Mubarak. Il quale ha difeso Arafat (con decrescente convinzione) fino all’ultimo, sostenendo che, in fin dei conti, soltanto il leader dell’Anp aveva la forza e l’autorità per imporre scelte impopolari. Ma tanta generosità è stata raramente ripagata. Eppure Mubarak, l’altro ieri, era pronto a salire a Parigi, al capezzale dell’amico morente. Per offrirgli solidarietà e per ricordare al mondo d’essere sempre stato il tutore più convinto della causa palestinese.

Con Gheddafi, Arafat non ha mai avuto feeling. I due praticamente si ignoravano anche perché il colonnello, con la sua solita presunzione, si riteneva (con pochissimi meriti rispetto ai tanti di Mubarak) lo scudo nordafricano della lotta dei palestinesi. Re Mohammed VI del Marocco, che ha ereditato dal padre Hassan la guida della prestigiosa commissione per Gerusalemme, ha preferito non lasciarsi coinvolgere nelle confuse strategie del raìs.

Per non parlare dei sauditi e dei vari emirati del Golfo, ai quali Arafat si rivolgeva sempre per chiedere denaro. Eppure il leader dell’Anp ha avuto un improvviso rilancio di popolarità fra i fratelli: quando non riuscì ad andare a Beirut, al vertice della Lega araba del 2002, perché temeva che gli israeliani non gli avrebbero concesso il biglietto di ritorno. In quell’occasione gli fu tributato un lungo applauso. Probabilmente l’ultimo, perché da quel momento gli errori di Arafat sono diventati una cascata, e per molti era quasi diventato impossibile difenderlo.

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