Da Corriere della Sera del 04/11/2004

Il vincitore e i vinti

di Gianni Riotta

La vittoria di George W. Bush è cristallina. Più di 59 milioni di voti, meglio di ogni presidente da Washington a oggi, otto milioni in più del 2000. La maggioranza per i repubblicani alla Camera e al Senato. La possibilità di nominare un paio di giudici della Corte suprema e influenzare per una generazione la vita americana con la sua filosofia. Le due Americhe, la conservatrice e la progressista, restano lontane, ma la coalizione di ceti moderati, finanza e cristiani tradizionalisti raccolta dallo stratega Karl Rove esprime l’animo profondo del Paese, gli umori domestici snobbati dai mass media. Se il voto fosse stato solo un referendum sul terrorismo e la guerra in Iraq, Bush non avrebbe raccolto molto al di là del 49% della sua base, pareggiando con Kerry. A sorpresa, e ci sarà da riflettere sulla novità, sono le pulsioni morali della società, il rifiuto dell’aborto, l’ostilità per la ricerca sulle cellule staminali, il no alla pillola anticoncezionale del «giorno dopo» e lo sdegno per i matrimoni di coppie omosessuali a mobilitare i conservatori, frenando le reclute democratiche. In ansia per gli attacchi di Osama Bin Laden, impressionata dalla guerriglia a Bagdad, l’opinione pubblica americana ha deciso che non sono tempi di esperimenti sociali e ha individuato in Bush valori semplici, fede, famiglia, comunità, patria. Kerry, che pure ha convinto 55 milioni di democratici confermando il radicamento storico del partito, perde perché gli elettori esigono «un leader forte di cui condividere i principi».

«Votare contro Bush a tutti i costi» è slogan efficace, ma per vincere occorrono un leader e un messaggio nitido. Solo due democratici sono stati eletti alla Casa Bianca nelle ultime dieci presidenziali, ed entrambi, Carter e Clinton, erano figli del Sud, religiosi, moderati. Gli eredi di Roosevelt hanno quattro anni per meditare.

Anche per il presidente Bush è stagione di riflessioni. Nel discorso della vittoria ha scelto toni da unità nazionale, come dopo l'11 settembre, dando l'onore delle armi a Kerry e chiedendo fiducia all'opposizione, «siamo un solo Paese». Kerry non ha prolungato lo strazio della conta, inutile, in Ohio, preoccupato dall'animosità che separa le due Americhe. Con le elezioni in Iraq a gennaio, Osama Bin Laden alla macchia e l'agenda interna da lanciare, riforma fiscale, pubblica istruzione, pensioni, Bush ha tutto da guadagnare riconciliando gli spiriti, abbandonando le retoriche stridule, lavorando con la minoranza. Ieri ci ha provato, con grazia e serietà. Ostacolo contro il governo dal centro sarà, paradossalmente, la questione della famiglia e dei valori che l'ha premiato alle urne. In politica il compromesso è pane quotidiano, ma chi sceglie un presidente in base a un decalogo di precetti morali considera peccato la trattativa. Rove e Bush avranno da lavorare bene, già bilanciando le nomine della nuova amministrazione, per non smarrire i toni concilianti.

Altrettanto ci sarà da lavorare nel mondo globale, dove Russia, Cina e India aspettano guardinghe le mosse di Bush II. Nel fargli gli auguri, il fedele alleato Tony Blair ha ripetuto gli appelli classici, riaprire il negoziato in Medio Oriente e combattere le cause del terrorismo con la stessa intensità con cui se ne braccano i commandos. Rassicurato dalle dimensioni della vittoria, preoccupato come tutti i presidenti al secondo mandato dai libri di storia, Bush potrebbe tornare il moderato che fu come governatore del Texas e seppellire l'ascia di guerra con Parigi, Berlino e Madrid. «Dobbiamo pensare anche alla nostra arroganza, non solo a quella degli americani» ammette il ministro degli Esteri francese Barnier, tendendo la mano a Washington. Liberato dal complesso di Edipo, può Bush evolvere in statista equanime? Sarebbe un gran bene per gli Stati Uniti e il resto del pianeta, in giorni affannati.

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