Da Corriere della Sera del 04/11/2004

Vantaggio per il premier. La sinistra apre agli Usa

di Massimo Franco

A prima vista, il più sobrio sembra Silvio Berlusconi: sebbene sia il principale beneficiario politico della conferma di George Bush. Se anche avesse vinto John Kerry, «la politica Usa non sarebbe cambiata sul piano internazionale». Il fatto che rimanga alla Casa Bianca «presenta per l’Italia delle facilitazioni», concede senza troppa enfasi il premier alla fine della sua visita a Mosca. Ma poi, fa capolino la tentazione di leggere le presidenziali ad uso interno. Dunque, lo stesso Berlusconi sottolinea che Bush ha vinto «anche per i tagli fiscali fatti». Messaggio obliquo agli alleati: ho ragione a volerli in Italia. E An lo rimanda al mittente. Sbavature a parte, tuttavia, l’entusiasmo del centrodestra appare contenuto. Ministri come Pisanu e Martino invitano a non schiacciare il risultato americano nel panorama angusto delle cose italiane. E qualcuno spiega la laconicità del governo col fatto che i segnali ricevuti da Washington annunciavano la vittoria di Bush: lo aveva confidato il sottosegretario a palazzo Chigi, Gianni Letta, sostenendo che le voci su una vittoria di Kerry non riflettevano la realtà. Gli ambasciatori Usa a Roma, Mel Sembler e Jim Nicholson, accreditato preso la Santa Sede, prevedevano un secondo mandato per Bush.

La vera delusione si avverte a sinistra. La scommessa su un cambio alla Casa Bianca era esplicita, perfino ostentata; in linea, d’altronde, con alcuni governi europei: quelli di Berlino, Parigi e Madrid in testa. Ma le malignità dei circoli diplomatici bilanciano la frustrazione parlando di una specie di sollievo. Bush, infatti, potrebbe consentire ad un’Europa tuttora divisa, di coltivare l’alibi dell’incomprensione con Washington, per rifiutare le ricette strategiche americane. E, in Italia, l’esistenza di un’Amministrazione amica di Berlusconi, permette all’opposizione di non dividersi sul ritiro dall’Iraq.

Nel breve periodo, la continuità prolunga le rendite di posizione del governo, e soprattutto dei suoi avversari. Eppure, già si intravede nelle reazioni della sinistra il timore che la vittoria di Bush anticipi quella del centrodestra nel 2006. Per Berlusconi, il risultato costituisce una boccata d’ossigeno dopo mesi di rovesci elettorali e liti fra alleati; e dopo l’umiliazione della bocciatura di Rocco Buttiglione a commissario europeo: un «no» nato dalle improvvide uscite su omosessuali e donne. Ora, l’ambizione del premier italiano è di essere riconosciuto come uomo-cerniera fra Ue e Usa e corifeo del multilateralismo: un’impresa titanica.

Il tracollo di Kerry fa dire ai diessini che «occorre riflettere sul voto popolare ai repubblicani». Il segretario Fassino accarezza il dialogo con Bush, «anche se non ci piace». D’Alema gli fa da sponda, spiegando che «un Paese in guerra» non cambia la propria guida; e in Italia anche «la sinistra deve farsi carico del problema della sicurezza». Per questo, il Quirinale si dice contrario ad una riduzione delle spese militari «sotto gli standard internazionali»; e deciso a rilanciare un lavoro «insieme, Usa e Europa, contro il terrorismo», ha scritto Carlo Azeglio Ciampi a Bush. Le sue parole scandalizzano Rc: è la conferma che a sinistra la «lezione americana» continua ad essere studiata con schemi culturali agli antipodi.

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