Da Il Messaggero del 05/11/2004
Travolto dalla sua intifada
di Marcella Emiliani
ARAFAT se ne va e con lui comunque fuori di scena se ne andrà una lunga stagione della politica mediorientale. Se ne va l'epoca dei raìs, i padri-padroni di interi paesi o popoli, più tiranni che monarchi illuminati; se ne va il vecchio mito delle lotte di liberazione nazionali condotte su un registro che voleva essere laico, terzomondista e non islamista; se ne va anche l'illusione panaraba che voleva tutti i paesi arabi fratelli a tutelare la causa palestinese e che troppo spesso si è risolta in una storia di parenti-serpenti.
Di Arafat si è sempre detto che era un uomo per tutte le stagioni, che come un camaleonte sapeva cambiare pelle a seconda del momento politico, ma proprio gli ultimi anni del suo regno hanno dimostrato il contrario. Il funambolo di sempre Abu Ammar, questo il suo nome di battaglia, non è riuscito a sopravvivere alla sua ultima tattica di lotta, quell'Intifada al Aqsa che specie a Gaza ha finito per sancire sul terreno la supremazia di Hamas e della Jihad islamica, a suon di attentati terroristici ai danni di civili israeliani e chiaramente contro l'idea di politica impersonata proprio dal medesimo Arafat, lontana dall'intransigenza purista e intrisa di martirologio degli islamisti palestinesi.
A sentire il primo ministro israeliano Ariel Sharon, Arafat non è mai stato estraneo all'arida stagione terroristica che ha insanguinato Israele: non esistono prove provate per dargli ragione o affermare il contrario, ma in entrambi i casi la vittima più illustre di questo gioco al massacro è stata proprio il presidente dell'Autonomia nazionale palestinese. Per gli israeliani (e gli americani della guerra globale al terrorismo) ha smesso di essere l'interlocutore privilegiato per un processo di pace ormai irreversibilmente impantanato, che si chiamasse Accordi di Oslo o Road Map. Se dunque è stato colluso col terrorismo dell'Intifada, per arrivare ad un tavolo dei negoziati da una posizione di forza, ha perlomeno sbagliato calcolo politico, perché il suo avversario di sempre, Ariel Sharon, si è spostato di lato, estromettendolo da qualsiasi trattativa, facendo anzi saltare qualsiasi tavolo di negoziato.
Per i palestinesi pur rimanendo Arafat l'icona storica della lotta di un intero popolo negli ultimi quattro anni egli ha rappresentato un elemento di profonda e dilaniante divisione: sono molti infatti quelli che lo ritengono responsabile delle pessime condizioni in cui sono costretti a vivere dopo aver tanto sperato nella pace e nei suoi benefici che non sono mai arrivati. E questo, è inutile dirlo, va a tutto vantaggio di Hamas e della Jihad islamica. Quando gli analisti politici mediorientali volevano essere impietosi, affermavano sconsolati: «Purtroppo Arafat non è Mandela», sottolineando la sua incapacità a trasformarsi da leader di un movimento di liberazione in vero e proprio capo di Stato, o, peggio, rimproverandogli il fatto di non essersi fatto da parte per lasciare spazio ai giovani, in specie quelli cresciuti all'interno dei Territori occupati e non nell'esilio di Beirut o Tunisi.
Certo, l'uomo è sempre stato un inguaribile accentratore, ma è anche vero che uno Stato non ce l'ha mai avuto, che l'Autonomia nazionale palestinese non è che un'idea, un abbozzo o un aborto di Stato. E niente più delle macerie della Muqada, il suo quartier generale a Ramallah dove è rimasto “prigioniero” dal 2001, può simboleggiare la solitudine dell'ultima stagione di Arafat, l'uomo che per decenni è stato il simbolo vivente della causa palestinese, brandendo in una mano un ramo d'ulivo e nell'altra un kalashnikov.
Di Arafat si è sempre detto che era un uomo per tutte le stagioni, che come un camaleonte sapeva cambiare pelle a seconda del momento politico, ma proprio gli ultimi anni del suo regno hanno dimostrato il contrario. Il funambolo di sempre Abu Ammar, questo il suo nome di battaglia, non è riuscito a sopravvivere alla sua ultima tattica di lotta, quell'Intifada al Aqsa che specie a Gaza ha finito per sancire sul terreno la supremazia di Hamas e della Jihad islamica, a suon di attentati terroristici ai danni di civili israeliani e chiaramente contro l'idea di politica impersonata proprio dal medesimo Arafat, lontana dall'intransigenza purista e intrisa di martirologio degli islamisti palestinesi.
A sentire il primo ministro israeliano Ariel Sharon, Arafat non è mai stato estraneo all'arida stagione terroristica che ha insanguinato Israele: non esistono prove provate per dargli ragione o affermare il contrario, ma in entrambi i casi la vittima più illustre di questo gioco al massacro è stata proprio il presidente dell'Autonomia nazionale palestinese. Per gli israeliani (e gli americani della guerra globale al terrorismo) ha smesso di essere l'interlocutore privilegiato per un processo di pace ormai irreversibilmente impantanato, che si chiamasse Accordi di Oslo o Road Map. Se dunque è stato colluso col terrorismo dell'Intifada, per arrivare ad un tavolo dei negoziati da una posizione di forza, ha perlomeno sbagliato calcolo politico, perché il suo avversario di sempre, Ariel Sharon, si è spostato di lato, estromettendolo da qualsiasi trattativa, facendo anzi saltare qualsiasi tavolo di negoziato.
Per i palestinesi pur rimanendo Arafat l'icona storica della lotta di un intero popolo negli ultimi quattro anni egli ha rappresentato un elemento di profonda e dilaniante divisione: sono molti infatti quelli che lo ritengono responsabile delle pessime condizioni in cui sono costretti a vivere dopo aver tanto sperato nella pace e nei suoi benefici che non sono mai arrivati. E questo, è inutile dirlo, va a tutto vantaggio di Hamas e della Jihad islamica. Quando gli analisti politici mediorientali volevano essere impietosi, affermavano sconsolati: «Purtroppo Arafat non è Mandela», sottolineando la sua incapacità a trasformarsi da leader di un movimento di liberazione in vero e proprio capo di Stato, o, peggio, rimproverandogli il fatto di non essersi fatto da parte per lasciare spazio ai giovani, in specie quelli cresciuti all'interno dei Territori occupati e non nell'esilio di Beirut o Tunisi.
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