Da La Repubblica del 08/11/2004
Il disagio di Parigi, costretta a tollerare Gbagbo per mantenere la sua presenza nel continente
Chirac, in Africa l´ultima sfida difendere un regime che lo odia
L´ex "perla" del continente, passata in pochi anni dalla ricchezza alla guerra civile provocata da motivi etnici
di Pietro Veronese
La Francia si trova in Costa d´Avorio in una situazione completamente paradossale. Difende un regime che ha un disperato bisogno di lei. Che la detesta, dà mostra di odiarla e ne uccide i soldati (e all´occorrenza i giornalisti). Parigi argina l´avanzata di una rivolta verso la quale nutre, se non simpatia, certamente comprensione.
Puntella le ultime vestigia della sua grandeur africana in un paesaggio di macerie, si trova in un estremo disagio ma sa che, se perde la Costa d´Avorio, avrà perso definitivamente l´Africa.
Non ha infine altro ricorso per giustificare la sua presenza che quello di cui più volentieri farebbe a meno: l´appello alle Nazioni Unite, tardiva fonte di legittimazione in quella che era una volta la chasse gardée, la riserva di caccia dell´Eliseo, dove nessuno aveva secondo Parigi diritto di mettere il naso.
Al centro della ragnatela ivoriana c´è l´inquietante figura del presidente Laurent Gbagbo. Un distinto intellettuale diventato populista, un Machiavelli tropicale che ha saputo presentarsi al mondo come un umanista e un campione dei diritti umani per poi, una volta eletto, governare spietatamente, costruirsi un potere personale mentre il suo paese andava in rovina, implicare la Francia con quattromila soldati mentre la accusa di «occupazione», disattendere con disinvoltura gli impegni solennemente sottoscritti in terra francese e restare in sella finora, con oltre metà della Costa d´Avorio in mano alla rivolta e fuori dal suo controllo, un´economia ridotta al lumicino da florida che fu (ma questa è solo in piccola parte responsabilità di Gbagbo) e un coro di condanne internazionali che sembrano tonificarlo anziché ricondurlo alla misura. Forse questa volta, lasciando che una base militare francese venisse bombardata dalla sua aeronautica e nove soldati di Parigi fossero uccisi, ha colmato la misura.
Come ogni crisi africana, anche quella della Costa d´Avorio è molto complicata. In essa s´intrecciano una molteplicità di fattori: economici, politici, regionali, geopolitici. All´origine di questo gorgo d´instabilità c´è senza dubbio il declino economico del paese, un tempo perla dell´Africa occidentale francese, relativamente ricco per le sue esportazioni di materie prime, a cominciare dal cacao.
La Costa d´Avorio era diventata negli anni il polo d´attrazione di tutto l´entroterra semi arido, il Sahel francofono. Erano decine di migliaia gli immigrati che dal Mali, dal Niger, dal Burkina Faso venivano a lavorare nelle sue piantagioni e nelle sue manifatture. Questo fenomeno, di per sé abbastanza raro in Africa (sono pochi i paesi d´immigrazione nel continente), è cruciale anche nelle recenti vicende politiche ivoriane.
Il declino economico e sociale del paese incomincia già negli anni '80, ma precipita nel 1993 alla morte del suo «eterno» fondatore e presidente Félix Houphouet-Boigny (34 anni di potere, sette rielezioni). Il successore non riesce a mantenere a lungo il controllo e un ammutinamento delle truppe dà luogo, nel dicembre '99, al primo colpo di Stato nella storia ivoriana. I militari cercano di restare al potere ma alla fine la spunta il capo dell´opposizione, Laurent Gbagbo, che vince le elezioni dell´ottobre successivo segnate da disordini, lotta senza esclusione di colpi tra avverse fazioni e massacri.
Gbagbo si fa paladino di un ambiguo nazionalismo, sotto lo slogan dell´«ivoirité», che gli consente tra l´altro di eliminare dalla corsa alla presidenza il più minaccioso dei suoi avversari, Alassane Ouattara, accusato di essere di «dubbia nazionalità». Il neopopulismo nazionalista di Gbagbo gode tuttavia di popolarità in un paese attanagliato dalla crisi economica, dove la gente vede negli immigrati di ieri i concorrenti di oggi su un mercato del lavoro fortemente immiserito. È l´infiammata retorica etnicista di Gbagbo e del suo partito a spingere alla rivolta, nel settembre di due anni fa, i moltissimi che si sentivano esclusi dal costante richiamo alla «purezza» ivoriana.
L´insurrezione delle Forces Nouvelles, o Forze nuove, avanza rapidamente da nord verso Abidjan ed è soltanto il dispiegamento del dispositivo francese Licorne - il più importante intervento militare estero di Parigi, con 4.000 effettivi - a salvare il potere di Gbagbo. Il baluardo francese ha tuttavia un prezzo: gli accordi con i ribelli che il presidente ivoriano è chiamato a firmare a Marcoussis, in Francia, nel gennaio 2003, solo per incominciare a disattenderli subito dopo. La retorica anti francese ne trae nuovo alimento, fino al bombardamento dell´altro ieri.
Puntella le ultime vestigia della sua grandeur africana in un paesaggio di macerie, si trova in un estremo disagio ma sa che, se perde la Costa d´Avorio, avrà perso definitivamente l´Africa.
Non ha infine altro ricorso per giustificare la sua presenza che quello di cui più volentieri farebbe a meno: l´appello alle Nazioni Unite, tardiva fonte di legittimazione in quella che era una volta la chasse gardée, la riserva di caccia dell´Eliseo, dove nessuno aveva secondo Parigi diritto di mettere il naso.
Al centro della ragnatela ivoriana c´è l´inquietante figura del presidente Laurent Gbagbo. Un distinto intellettuale diventato populista, un Machiavelli tropicale che ha saputo presentarsi al mondo come un umanista e un campione dei diritti umani per poi, una volta eletto, governare spietatamente, costruirsi un potere personale mentre il suo paese andava in rovina, implicare la Francia con quattromila soldati mentre la accusa di «occupazione», disattendere con disinvoltura gli impegni solennemente sottoscritti in terra francese e restare in sella finora, con oltre metà della Costa d´Avorio in mano alla rivolta e fuori dal suo controllo, un´economia ridotta al lumicino da florida che fu (ma questa è solo in piccola parte responsabilità di Gbagbo) e un coro di condanne internazionali che sembrano tonificarlo anziché ricondurlo alla misura. Forse questa volta, lasciando che una base militare francese venisse bombardata dalla sua aeronautica e nove soldati di Parigi fossero uccisi, ha colmato la misura.
Come ogni crisi africana, anche quella della Costa d´Avorio è molto complicata. In essa s´intrecciano una molteplicità di fattori: economici, politici, regionali, geopolitici. All´origine di questo gorgo d´instabilità c´è senza dubbio il declino economico del paese, un tempo perla dell´Africa occidentale francese, relativamente ricco per le sue esportazioni di materie prime, a cominciare dal cacao.
La Costa d´Avorio era diventata negli anni il polo d´attrazione di tutto l´entroterra semi arido, il Sahel francofono. Erano decine di migliaia gli immigrati che dal Mali, dal Niger, dal Burkina Faso venivano a lavorare nelle sue piantagioni e nelle sue manifatture. Questo fenomeno, di per sé abbastanza raro in Africa (sono pochi i paesi d´immigrazione nel continente), è cruciale anche nelle recenti vicende politiche ivoriane.
Il declino economico e sociale del paese incomincia già negli anni '80, ma precipita nel 1993 alla morte del suo «eterno» fondatore e presidente Félix Houphouet-Boigny (34 anni di potere, sette rielezioni). Il successore non riesce a mantenere a lungo il controllo e un ammutinamento delle truppe dà luogo, nel dicembre '99, al primo colpo di Stato nella storia ivoriana. I militari cercano di restare al potere ma alla fine la spunta il capo dell´opposizione, Laurent Gbagbo, che vince le elezioni dell´ottobre successivo segnate da disordini, lotta senza esclusione di colpi tra avverse fazioni e massacri.
Gbagbo si fa paladino di un ambiguo nazionalismo, sotto lo slogan dell´«ivoirité», che gli consente tra l´altro di eliminare dalla corsa alla presidenza il più minaccioso dei suoi avversari, Alassane Ouattara, accusato di essere di «dubbia nazionalità». Il neopopulismo nazionalista di Gbagbo gode tuttavia di popolarità in un paese attanagliato dalla crisi economica, dove la gente vede negli immigrati di ieri i concorrenti di oggi su un mercato del lavoro fortemente immiserito. È l´infiammata retorica etnicista di Gbagbo e del suo partito a spingere alla rivolta, nel settembre di due anni fa, i moltissimi che si sentivano esclusi dal costante richiamo alla «purezza» ivoriana.
L´insurrezione delle Forces Nouvelles, o Forze nuove, avanza rapidamente da nord verso Abidjan ed è soltanto il dispiegamento del dispositivo francese Licorne - il più importante intervento militare estero di Parigi, con 4.000 effettivi - a salvare il potere di Gbagbo. Il baluardo francese ha tuttavia un prezzo: gli accordi con i ribelli che il presidente ivoriano è chiamato a firmare a Marcoussis, in Francia, nel gennaio 2003, solo per incominciare a disattenderli subito dopo. La retorica anti francese ne trae nuovo alimento, fino al bombardamento dell´altro ieri.
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