Da Corriere della Sera del 08/11/2004
Parigi manda la Legione straniera
In Costa d’Avorio la forza di pace trascinata nella guerra civile. Appello del Papa
di Massimo Nava
PARIGI - Forse chiameremo guerra civile o rivolta nazionalistica, o tutte e due le cose insieme, il conflitto che si prepara in Costa d'Avorio, dove la situazione precipita, dopo una terribile notte di sparatorie e vandalismi in diverse città. La folla, incitata da capipopolo in televisione, dà l'assalto a residenze e rappresentanze economiche e culturali francesi. Scontri si succedono fra forze governative e soldati francesi nella zona dell'aeroporto internazionale di Abidjan, la capitale economica percorsa da blindati e sconvolta dai disordini. In serata il capo di stato maggiore di Parigi ammette che i suoi soldati «possono aver ferito o ucciso qualcuno».
Migliaia di civili stranieri restano barricati nelle loro case, anche se per ora è escluda una partenza di massa. Giovani ivoriani, armati di bastoni e bottiglie incendiarie si organizzano per una seconda notte d'inferno. La Francia invia altri due battaglioni di 600 uomini, legionari e truppe speciali, con il rischio di rimanere intrappolata in un'escalation militare che non ha voluto. Appello ieri del Papa per la fine degli scontri: «Possano le armi tacere, gli accordi di pace essere rispettati e il dialogo riprendere».
Il contingente militare francese non è più una forza d'interposizione fra le parti in conflitto, ma considerato da tutti una forza d'occupazione, preso fra due fuochi, costretto a difendersi e a sparare per mantenere l'ordine. Un'ostilità che si somma al risentimento degli stessi civili francesi. Il panico e la rabbia di vedere andare in fumo anni di lavoro e investimenti si trasforma in un atto d'accusa al governo di Parigi, per aver scelto l'equidistanza fra regime e ribelli e l'equilibrio diplomatico anziché una più risoluta difesa della stabilità.
Per la Francia, l'operazione «Licorne», il contingente di 4.500 soldati inviati nel 2002 su mandato Onu, rischia di tramutarsi in un fallimento politico che ha già un alto prezzo di vite umane: 9 soldati morti e 23 feriti nel corso del raid aereo, l'altro ieri, delle forze governative sulle postazioni dei ribelli al Nord. «Soldati di pace», ha tenuto a ribadire il ministro degli Esteri francese, Barnier.
La reazione di Parigi, con la decisione del presidente Chirac di far distruggere i mezzi militari ivoriani (due aerei e tre elicotteri) ha scatenato rivalse e insinuato nella popolazione e negli apparati del regime la convinzione che la Francia non sia più il partner privilegiato e affidabile del Paese dopo la lunga dominazione coloniale. Parigi, come ha detto il premier Raffarin, «difende lo stato di diritto» e ritiene il presidente Laurent Gbagbo «responsabile» dei disordini. Ma il presidente di un Paese lacerato, dove le forze ribelli controllano il Nord, appare scavalcato da altri protagonisti che pensano sia scoccata l'ora di una spallata. Ble Goude, che si fa chiamare «generale» e controlla bande di giovani «patrioti», incita la folla e paragona la Costa d'Avorio all'Iraq: i francesi dovrebbero diventare un bersaglio, come i marines. Il presidente dell'Assemblea, Mamadou Coulibaly, parla di «resistenza contro l'impero francese» e minaccia: «Il Vietnam non sarà nulla in confronto a quello che faremo in Costa d'Avorio». Un portavoce del presidente Gbagbo chiede all'Onu di intervenire contro la Francia, «Paese aggressore».
I paragoni con Iraq e Vietnam sono sproporzionati sul piano militare, ma evocano una contrapposizione sul terreno che la Francia ha cercato di scongiurare. L'invio di truppe sotto l'egida Onu (6.000 soldati), l'equidistanza fra le fazioni e la ricerca di un accordo di unità nazionale miravano anche a evitare facili sospetti di un'operazione neo-coloniale. La situazione è sfuggita di mano. La Francia ora è considerata gendarme dai ribelli e traditore dai governativi.
Inutilmente, il presidente Chirac ha invitato Gbagbo a desistere dai bombardamenti sul Nord e da una prova di forza con i ribelli. Adesso si spera nella mediazione del presidente sudafricano Mbeki, oggi ad Abidjan.
Per le Nazioni Unite reggono invece i paragoni con altri scenari di conflitto in cui gli sforzi di mediazione si sono trasformati nell'impotenza spettatrice di negoziati inutili. La Costa d'Avorio rischia lo smembramento territoriale, etnico, religioso e politico innescato dalla crisi economica.
Anche l'identità della popolazione, nonostante la comune cultura francese, è un fattore di conflittualità: un quarto è straniera, costituita da immigrati dai Paesi vicini nelle piantagioni di cacao, oggi diventati profughi o massa di manovra della guerriglia. Diverse componenti sono musulmane, in conflitto con il Sud cristiano. Il porto di Abidjan, il nodo commerciale per i Paesi dell'area, è anche nodo strategico per il Golfo di Guinea, dove esistono importanti giacimenti petroliferi off shore in orbita americana. Come ieri la regione dei Grandi Laghi, anche la Costa d'Avorio può entrare nella partita delle zone d'influenza. E la Francia, ex potenza coloniale, non vuole perdere anche questa.
Migliaia di civili stranieri restano barricati nelle loro case, anche se per ora è escluda una partenza di massa. Giovani ivoriani, armati di bastoni e bottiglie incendiarie si organizzano per una seconda notte d'inferno. La Francia invia altri due battaglioni di 600 uomini, legionari e truppe speciali, con il rischio di rimanere intrappolata in un'escalation militare che non ha voluto. Appello ieri del Papa per la fine degli scontri: «Possano le armi tacere, gli accordi di pace essere rispettati e il dialogo riprendere».
Il contingente militare francese non è più una forza d'interposizione fra le parti in conflitto, ma considerato da tutti una forza d'occupazione, preso fra due fuochi, costretto a difendersi e a sparare per mantenere l'ordine. Un'ostilità che si somma al risentimento degli stessi civili francesi. Il panico e la rabbia di vedere andare in fumo anni di lavoro e investimenti si trasforma in un atto d'accusa al governo di Parigi, per aver scelto l'equidistanza fra regime e ribelli e l'equilibrio diplomatico anziché una più risoluta difesa della stabilità.
Per la Francia, l'operazione «Licorne», il contingente di 4.500 soldati inviati nel 2002 su mandato Onu, rischia di tramutarsi in un fallimento politico che ha già un alto prezzo di vite umane: 9 soldati morti e 23 feriti nel corso del raid aereo, l'altro ieri, delle forze governative sulle postazioni dei ribelli al Nord. «Soldati di pace», ha tenuto a ribadire il ministro degli Esteri francese, Barnier.
La reazione di Parigi, con la decisione del presidente Chirac di far distruggere i mezzi militari ivoriani (due aerei e tre elicotteri) ha scatenato rivalse e insinuato nella popolazione e negli apparati del regime la convinzione che la Francia non sia più il partner privilegiato e affidabile del Paese dopo la lunga dominazione coloniale. Parigi, come ha detto il premier Raffarin, «difende lo stato di diritto» e ritiene il presidente Laurent Gbagbo «responsabile» dei disordini. Ma il presidente di un Paese lacerato, dove le forze ribelli controllano il Nord, appare scavalcato da altri protagonisti che pensano sia scoccata l'ora di una spallata. Ble Goude, che si fa chiamare «generale» e controlla bande di giovani «patrioti», incita la folla e paragona la Costa d'Avorio all'Iraq: i francesi dovrebbero diventare un bersaglio, come i marines. Il presidente dell'Assemblea, Mamadou Coulibaly, parla di «resistenza contro l'impero francese» e minaccia: «Il Vietnam non sarà nulla in confronto a quello che faremo in Costa d'Avorio». Un portavoce del presidente Gbagbo chiede all'Onu di intervenire contro la Francia, «Paese aggressore».
I paragoni con Iraq e Vietnam sono sproporzionati sul piano militare, ma evocano una contrapposizione sul terreno che la Francia ha cercato di scongiurare. L'invio di truppe sotto l'egida Onu (6.000 soldati), l'equidistanza fra le fazioni e la ricerca di un accordo di unità nazionale miravano anche a evitare facili sospetti di un'operazione neo-coloniale. La situazione è sfuggita di mano. La Francia ora è considerata gendarme dai ribelli e traditore dai governativi.
Inutilmente, il presidente Chirac ha invitato Gbagbo a desistere dai bombardamenti sul Nord e da una prova di forza con i ribelli. Adesso si spera nella mediazione del presidente sudafricano Mbeki, oggi ad Abidjan.
Per le Nazioni Unite reggono invece i paragoni con altri scenari di conflitto in cui gli sforzi di mediazione si sono trasformati nell'impotenza spettatrice di negoziati inutili. La Costa d'Avorio rischia lo smembramento territoriale, etnico, religioso e politico innescato dalla crisi economica.
Anche l'identità della popolazione, nonostante la comune cultura francese, è un fattore di conflittualità: un quarto è straniera, costituita da immigrati dai Paesi vicini nelle piantagioni di cacao, oggi diventati profughi o massa di manovra della guerriglia. Diverse componenti sono musulmane, in conflitto con il Sud cristiano. Il porto di Abidjan, il nodo commerciale per i Paesi dell'area, è anche nodo strategico per il Golfo di Guinea, dove esistono importanti giacimenti petroliferi off shore in orbita americana. Come ieri la regione dei Grandi Laghi, anche la Costa d'Avorio può entrare nella partita delle zone d'influenza. E la Francia, ex potenza coloniale, non vuole perdere anche questa.
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