Da La Repubblica del 13/11/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/esteri/arafat2/rabbiadolore/ra...
IL REPORTAGE
Un'esplosione di rabbia e dolore
di Bernardo Valli
Le forze di polizia israeliane erano in stato d'allerta, al massimo livello, il numero quattro, quello previsto in caso di guerra. Ma il funerale di Arafat non si è trasformato in una guerra: è stata un'esplosione di passioni, come se ne vede soltanto nel Sud del mondo: una vampata di dolore, gridato, urlato, senza violenza. È stato l'abbandono a una disperazione da cui si sprigionava una straordinaria energia combattiva.
Davanti alle immagini della folla stretta, avvinghiata alla bara, mi è capitato di pensare che volesse impadronirsene per portarla da Ramallah a Gerusalemme, sulla Spianata delle Mosche.
Dove Arafat sarebbe stato sepolto, secondo la sua volontà, se Sharon non l'avesse proibito. E non sono stato l'unico a immaginare che i giovani eccitati, in preda alla commozione, contendessero sul serio ai miliziani la salma appena arrivata dal Cairo, via El Arish (nel Sinai), ed estratta a stento da un elicottero preso d'assalto.
I poliziotti partecipavano all'emozione, scandivano omaggi al raìs morto, e al tempo stesso sparavano in aria, o a salve, per allentare la morsa della gente. Nella mischia una cronista televisiva ha gridato nel microfono: "Stanno rubando Arafat". Ma non era questo che stava accadendo nella Muqata, trasformata da residenza-prigione in un mausoleo.
Nell'attesa del funerale la suspense era tale che anche la polizia israeliana aveva ipotizzato il ratto del cadavere. Non aveva escluso che un corteo imponente cercasse di portare il corpo di Arafat a Gerusalemme, sfidando gli sbarramenti di Tsahal. Interrogato su questa eventualità da un ministro (quello delle finanze, Benjamin Netanyahu), il responsabile dell'ordine pubblico l'aveva rassicurato: erano state prese disposizioni per evitare che ciò si verificasse.
La Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei) era del resto saldamente presidiata nel giorno in cui migliaia di fedeli pregavano oltre che per il raìs morto, anche per la ricorrenza dell'ultimo venerdì di Ramadan.
Alla fine non è avvenuto quel che si temeva. Lacrime, braccia tese, pugni chiusi, invocazioni scandite con toni in cui rabbia e dolcezza si confondono, omaggi senza fine ad Arafat "martire, leader e simbolo". Ma non sangue versato. Certo, davanti a un padre, a un capo defunto, i figli, i cittadini, si sentono orfani. E non c'è dubbio che i centomila palestinesi raccoltisi a Ramallah, attorno e dentro la Muqata, rimpiangevano il raìs, che ha dato loro un'identità, come appunto un padre dà il proprio nome. Ma quel vitale spettacolo di dolore, assai simile a una sfida, rappresentava molto di più.
Al Cairo, nella mattina, c'era stato il primo funerale. Quello ufficiale, si è detto. Riservato a uomini di rango che a Ramallah non avrebbero trovato i tappeti rossi, e si sarebbero impolverate le scarpe nel disastrato cortile della Muqata, più volte arato dai cingoli israeliani.
Nella capitale egiziana non c'era la folla. C'erano monarchi, presidenti e ministri arabi i cui predecessori hanno imprigionato più volte Arafat, e ucciso i suoi uomini in battaglie spesso più sanguinose di quelle con Israele.
Penso in particolare alla Giordania dei primi anni Settanta e alla Siria dei primi Ottanta. C'erano anche i rappresentanti di Paesi occidentali generosi in dichiarazioni e avari nei fatti. Essendosi trattato di una cerimonia funebre, sarebbe inopportuno parlare di farsa, anche se l'espressione viene spontanea. Come si può fare un funerale da capo di Stato per un defunto al quale in vita è sempre stato negato il diritto di creare uno Stato per la sua gente?
Tutt'altra la scena di Ramallah dove il solo protagonista era il popolo palestinese, nella polverosa, sbrecciata cornice della Muqata, diventata sepolcro. Un popolo che aveva perduto il suo simbolo vivente, e che rimpiangendolo, in preda all'emozione, travolgeva tutti i segni d'autorità: sfondava i cordoni della polizia; superava i divieti; invadeva il campo su cui dovevano posarsi gli elicotteri, incurante degli spari in aria che avrebbero dovuto intimidirlo; si gettava sulla bara; sostituiva la bandiera con la più famigliare kefiah del raìs; quasi si impossessava della salma. In quelle due ore era un popolo abbandonato a se stesso, senza un vero governo, senza uno Stato. Quello Stato aggiudicato a Yasser Arafat morto, inventato per l'occasione, al fine di rafforzare l'effetto scenico, durante il funerale ufficiale del Cairo.
Israele ha cominciato lo shabbat guardando quelle immagini sui teleschermi. Non c'era nessun suo rappresentante ufficiale, né al Cairo né a Ramallah. Alla Muqata erano presenti organizzazioni pacifiste di Tel Aviv, di Haifa o di Gerusalemme, e singoli cittadini, i quali avevano dovuto firmare una dichiarazione in cui liberavano da ogni responsabilità lo Stato israeliano, nel caso subissero aggressioni. La polizia aveva messo in guardia sulla scarsa efficienza del servizio d'ordine palestinese; e, per opportunità politica, aveva escluso ogni suo contributo. Così, in un momento di grande lutto del popolo vicino, con cui dovrà convivere nell'illimitato futuro, Israele si è tenuto in disparte. I palestinesi non avrebbero del resto gradito una sua qualsiasi partecipazione.
Non è difficile immaginare le reazioni di molti israeliani davanti alle immagini dei centomila palestinesi protesi verso la bara di Arafat. L'uomo che hanno detestato di più. E la cui morte è stata accolta con sollievo. Come la liberazione da un incubo. Un incubo probabilmente riaffiorato nelle ultime ore guardando quella massa di uomini, per lo più giovani, pieni di energia e carichi di passioni, in cui tutto è vitale, nonostante la precarietà dell'esistenza. Una forza da non ripudiare, da non lasciare senza una vera, dignitosa autorità, sganciata come un'emotiva zavorra; ma da impegnare nella costruzione del tanto invocato Stato palestinese. Questa forza al momento spaventa o infastidisce soltanto.
Mai come in queste occasioni si avverte l'incapacità dei due popoli, che si contendono la stessa terra, di superare l'odio reciproco. Per sradicarne le ormai troppo profonde radici è indispensabile l'intervento esterno. Delle super o grandi potenze, certo. Ma anche dei semplici Paesi amici, possibilmente non saccenti e rigorosamente imparziali.
Davanti alle immagini della folla stretta, avvinghiata alla bara, mi è capitato di pensare che volesse impadronirsene per portarla da Ramallah a Gerusalemme, sulla Spianata delle Mosche.
Dove Arafat sarebbe stato sepolto, secondo la sua volontà, se Sharon non l'avesse proibito. E non sono stato l'unico a immaginare che i giovani eccitati, in preda alla commozione, contendessero sul serio ai miliziani la salma appena arrivata dal Cairo, via El Arish (nel Sinai), ed estratta a stento da un elicottero preso d'assalto.
I poliziotti partecipavano all'emozione, scandivano omaggi al raìs morto, e al tempo stesso sparavano in aria, o a salve, per allentare la morsa della gente. Nella mischia una cronista televisiva ha gridato nel microfono: "Stanno rubando Arafat". Ma non era questo che stava accadendo nella Muqata, trasformata da residenza-prigione in un mausoleo.
Nell'attesa del funerale la suspense era tale che anche la polizia israeliana aveva ipotizzato il ratto del cadavere. Non aveva escluso che un corteo imponente cercasse di portare il corpo di Arafat a Gerusalemme, sfidando gli sbarramenti di Tsahal. Interrogato su questa eventualità da un ministro (quello delle finanze, Benjamin Netanyahu), il responsabile dell'ordine pubblico l'aveva rassicurato: erano state prese disposizioni per evitare che ciò si verificasse.
La Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei) era del resto saldamente presidiata nel giorno in cui migliaia di fedeli pregavano oltre che per il raìs morto, anche per la ricorrenza dell'ultimo venerdì di Ramadan.
Alla fine non è avvenuto quel che si temeva. Lacrime, braccia tese, pugni chiusi, invocazioni scandite con toni in cui rabbia e dolcezza si confondono, omaggi senza fine ad Arafat "martire, leader e simbolo". Ma non sangue versato. Certo, davanti a un padre, a un capo defunto, i figli, i cittadini, si sentono orfani. E non c'è dubbio che i centomila palestinesi raccoltisi a Ramallah, attorno e dentro la Muqata, rimpiangevano il raìs, che ha dato loro un'identità, come appunto un padre dà il proprio nome. Ma quel vitale spettacolo di dolore, assai simile a una sfida, rappresentava molto di più.
Al Cairo, nella mattina, c'era stato il primo funerale. Quello ufficiale, si è detto. Riservato a uomini di rango che a Ramallah non avrebbero trovato i tappeti rossi, e si sarebbero impolverate le scarpe nel disastrato cortile della Muqata, più volte arato dai cingoli israeliani.
Nella capitale egiziana non c'era la folla. C'erano monarchi, presidenti e ministri arabi i cui predecessori hanno imprigionato più volte Arafat, e ucciso i suoi uomini in battaglie spesso più sanguinose di quelle con Israele.
Penso in particolare alla Giordania dei primi anni Settanta e alla Siria dei primi Ottanta. C'erano anche i rappresentanti di Paesi occidentali generosi in dichiarazioni e avari nei fatti. Essendosi trattato di una cerimonia funebre, sarebbe inopportuno parlare di farsa, anche se l'espressione viene spontanea. Come si può fare un funerale da capo di Stato per un defunto al quale in vita è sempre stato negato il diritto di creare uno Stato per la sua gente?
Tutt'altra la scena di Ramallah dove il solo protagonista era il popolo palestinese, nella polverosa, sbrecciata cornice della Muqata, diventata sepolcro. Un popolo che aveva perduto il suo simbolo vivente, e che rimpiangendolo, in preda all'emozione, travolgeva tutti i segni d'autorità: sfondava i cordoni della polizia; superava i divieti; invadeva il campo su cui dovevano posarsi gli elicotteri, incurante degli spari in aria che avrebbero dovuto intimidirlo; si gettava sulla bara; sostituiva la bandiera con la più famigliare kefiah del raìs; quasi si impossessava della salma. In quelle due ore era un popolo abbandonato a se stesso, senza un vero governo, senza uno Stato. Quello Stato aggiudicato a Yasser Arafat morto, inventato per l'occasione, al fine di rafforzare l'effetto scenico, durante il funerale ufficiale del Cairo.
Israele ha cominciato lo shabbat guardando quelle immagini sui teleschermi. Non c'era nessun suo rappresentante ufficiale, né al Cairo né a Ramallah. Alla Muqata erano presenti organizzazioni pacifiste di Tel Aviv, di Haifa o di Gerusalemme, e singoli cittadini, i quali avevano dovuto firmare una dichiarazione in cui liberavano da ogni responsabilità lo Stato israeliano, nel caso subissero aggressioni. La polizia aveva messo in guardia sulla scarsa efficienza del servizio d'ordine palestinese; e, per opportunità politica, aveva escluso ogni suo contributo. Così, in un momento di grande lutto del popolo vicino, con cui dovrà convivere nell'illimitato futuro, Israele si è tenuto in disparte. I palestinesi non avrebbero del resto gradito una sua qualsiasi partecipazione.
Non è difficile immaginare le reazioni di molti israeliani davanti alle immagini dei centomila palestinesi protesi verso la bara di Arafat. L'uomo che hanno detestato di più. E la cui morte è stata accolta con sollievo. Come la liberazione da un incubo. Un incubo probabilmente riaffiorato nelle ultime ore guardando quella massa di uomini, per lo più giovani, pieni di energia e carichi di passioni, in cui tutto è vitale, nonostante la precarietà dell'esistenza. Una forza da non ripudiare, da non lasciare senza una vera, dignitosa autorità, sganciata come un'emotiva zavorra; ma da impegnare nella costruzione del tanto invocato Stato palestinese. Questa forza al momento spaventa o infastidisce soltanto.
Mai come in queste occasioni si avverte l'incapacità dei due popoli, che si contendono la stessa terra, di superare l'odio reciproco. Per sradicarne le ormai troppo profonde radici è indispensabile l'intervento esterno. Delle super o grandi potenze, certo. Ma anche dei semplici Paesi amici, possibilmente non saccenti e rigorosamente imparziali.
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