Da Corriere della Sera del 10/11/2004
Lettera di cinque pagine al presidente, scritta prima dell’esito del voto: «Questo ufficio sarà meglio occupato da una nuova leadership»
Secondo governo Bush, Ashcroft lascia
Si dimette il ministro della Giustizia, padre del Patriot Act. Via anche Evans, titolare del Commercio
di Ennio Caretto
WASHINGTON - E’ l’inizio del Bush due: due ministri rassegnano le dimissioni, uno come previsto (anzi auspicato), l’altro a sorpresa.
Sono John Ashcroft, il titolare del dicastero della Giustizia e padre del Patriot Act, la «legge patriottica» (caposaldo della strategia antiterrorismo) che secondo i liberal ha ridotto i diritti civili. E Don Evans, il titolare del Commercio, uno dei migliori amici di George W. Bush. Ashcroft, l’esponente neocon del Missouri, di cui è stato senatore e governatore, se ne va senza lasciare molti rimpianti, consapevole di essere diventato di peso al presidente Bush. Il texano Evans, invece, un moderato, parte a malincuore per tornare in famiglia, deluso di non avere ottenuto il ministero del Tesoro a cui aspirava. Per la Casa Bianca è un brutto colpo, ma Andrew Card, il capo di gabinetto, appena confermato nella carica da Bush, incassa con disinvoltura. E quasi per anticipare reazioni negative comunica che sono ora attese altre dimissioni: «Abbiamo avvertito i ministri che entro domani devono comunicarci se desiderano restare o no».
Per ora si tratterebbe di dimissioni minori, quelle del ministro dei Trasporti Norman Mineta, l’unico democratico dell’amministrazione, del ministro della Sanità e risorse umane Tommy Thomson, e del negoziatore dei commerci Robert Zoellick. Non si parla delle dimissioni, spesso ipotizzate ma mai concretatesi, del segretario di Stato Colin Powell, la colomba dell’amministrazione, anche perché Powell si è ieri detto «molto felice» delle sue mansioni.
Che Powell si dimetta o no (e che si dimetta o no anche il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, come insistono i liberal), è comunque chiaro che il Bush due avrà parecchi volti nuovi.
L’America si chiede se sia un segno di latente crisi o di rinnovamento, un passo indietro o uno avanti.
Più che su Evans, l’attenzione del Paese è concentrata su Ashcroft. Il ministro della Giustizia ha rassegnato le dimissioni il 2 novembre, giorno delle elezioni, con una lettera di cinque pagine a Bush. L’esito del voto, ha scritto, non influirà sulla mia decisione: «Questo ministero sarà meglio diretto da una nuova leadership e ispirazione». Pare che Ashcroft abbia addotto ragioni di salute (è reduce da una difficile operazione chirurgica) e abbia rivendicato il merito di avere reso la nazione più sicura con la sua strategia, che ha portato al rifiuto della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, ai maltrattamenti dei talebani a Guantanamo e all’imprigionamento per anni di cittadini americani oltre che stranieri solo per il sospetto di terrorismo, senza che fossero formulate incriminazioni.
A quanto riferito dalla Casa Bianca, Bush ha accettato entrambe le dimissioni e provvederà alle sostituzioni nei prossimi giorni. Il presidente ha lodato Ashcroft: «John ha lavorato senza tregua per proteggere l’America - ha asserito in un comunicato - e ha servito con onore, distinzione e integrità questa amministrazione». Ma è stato più effusivo con Evans, suo compagno di jogging: «E’ uno dei migliori amici e consiglieri che abbia, un fautore del mercato che ha promosso la prosperità della nazione». Al Congresso si dice che Bush stia esaminando una rosa di candidati. Card non ha voluto precisare se annuncerà i due successori a breve, o se aspetterà di avere pronto l’intero nuovo gabinetto.
Sono John Ashcroft, il titolare del dicastero della Giustizia e padre del Patriot Act, la «legge patriottica» (caposaldo della strategia antiterrorismo) che secondo i liberal ha ridotto i diritti civili. E Don Evans, il titolare del Commercio, uno dei migliori amici di George W. Bush. Ashcroft, l’esponente neocon del Missouri, di cui è stato senatore e governatore, se ne va senza lasciare molti rimpianti, consapevole di essere diventato di peso al presidente Bush. Il texano Evans, invece, un moderato, parte a malincuore per tornare in famiglia, deluso di non avere ottenuto il ministero del Tesoro a cui aspirava. Per la Casa Bianca è un brutto colpo, ma Andrew Card, il capo di gabinetto, appena confermato nella carica da Bush, incassa con disinvoltura. E quasi per anticipare reazioni negative comunica che sono ora attese altre dimissioni: «Abbiamo avvertito i ministri che entro domani devono comunicarci se desiderano restare o no».
Per ora si tratterebbe di dimissioni minori, quelle del ministro dei Trasporti Norman Mineta, l’unico democratico dell’amministrazione, del ministro della Sanità e risorse umane Tommy Thomson, e del negoziatore dei commerci Robert Zoellick. Non si parla delle dimissioni, spesso ipotizzate ma mai concretatesi, del segretario di Stato Colin Powell, la colomba dell’amministrazione, anche perché Powell si è ieri detto «molto felice» delle sue mansioni.
Che Powell si dimetta o no (e che si dimetta o no anche il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, come insistono i liberal), è comunque chiaro che il Bush due avrà parecchi volti nuovi.
L’America si chiede se sia un segno di latente crisi o di rinnovamento, un passo indietro o uno avanti.
Più che su Evans, l’attenzione del Paese è concentrata su Ashcroft. Il ministro della Giustizia ha rassegnato le dimissioni il 2 novembre, giorno delle elezioni, con una lettera di cinque pagine a Bush. L’esito del voto, ha scritto, non influirà sulla mia decisione: «Questo ministero sarà meglio diretto da una nuova leadership e ispirazione». Pare che Ashcroft abbia addotto ragioni di salute (è reduce da una difficile operazione chirurgica) e abbia rivendicato il merito di avere reso la nazione più sicura con la sua strategia, che ha portato al rifiuto della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, ai maltrattamenti dei talebani a Guantanamo e all’imprigionamento per anni di cittadini americani oltre che stranieri solo per il sospetto di terrorismo, senza che fossero formulate incriminazioni.
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