Da Corriere della Sera del 10/11/2004

Il legale del boss chiede di far riavere agli eredi case, terreni e società bloccati da Falcone nel 1985

Don Tano, la beffa del tesoro da restituire

Badalamenti morì prima della condanna per mafia: per questo lo Stato deve riconsegnare i beni sequestrati

di Giovanni Bianconi

ROMA - Diciannove anni fa, nel 1985, il sequestro dei beni del boss ordinato dal pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino segnò uno dei successi dell’antimafia. Finalmente, con la firma dei due giudici istruttori, lo Stato aggrediva i patrimoni di don Tano Badalamenti, una delle icone di Cosa Nostra, simbolo della vecchia mafia soppiantata da corleonesi al vertice dell’organizzazione, ma ancora attiva. Una vittoria, dunque, tanto più che don Tano da Cinisi era finalmente in cella, arrestato in Spagna nell’84 e poi estradato negli Stati Uniti. Ma oggi, anno di grazia 2004, lo Stato si appresta a restituire quei beni agli eredi del boss, e a riconoscere la propria sconfitta. Diciannove anni non sono bastati a processare e condannare Badalamenti per il reato di associazione mafiosa, e dopo la morte dell’imputato avvenuta nell’aprile scorso il patrimonio sequestrato da Falcone e Borsellino rischia di tornare ai familiari di don Tano. La richiesta è arrivata qualche settimana fa alla corte d’assise di Palermo. «Il sottoscritto avvocato Paolo Gullo, già difensore di Badalamenti Gaetano, chiede la restituzione dei beni», eccetera eccetera. Poche righe per avviare una procedura in fondo alla quale si profila una decisione dal sapore di beffa.

L’elenco del patrimonio di beni immobili «del quale allo stato non risulta la legittima provenienza» risale appunto all’85, riempie quattro pagine dattiloscritte ed è agli atti del primo maxi-processo alle cosche. Si apre con un «fondo rustico denominato "Dainasturi", sito parte in territorio di Carini e parte di territorio di Terrasini» e si chiude con uno «spezzone di terreno sito in Cinisi». In mezzo ci sono altre diciassette proprietà che vanno da fondi e «fondicelli» vari ad altri 12 spezzoni o appezzamenti di terreno, un fabbricato a due piani «sito in Carini, Via Umberto I», una «casa terrana adibita a magazzino sita in Cinisi» e un appartamento «composto da sei vani, sito in Palermo, facente parte dell’edificio ubicato tra viale Strasburgo e viale Danimarca». In più sono elencate cinque società «alle quali l’imputato risulta direttamente o indirettamente interessato»; quattro di Cinisi, tra cui la «Sicula Calcestruzzi Spa», e una con sede a Capaci, chiamata «Copa-Cabana Spa».

Tutto questo venne sequestrato nell’ambito del mega-procedimento contro 475 persone, tra cui Badalamenti accusato di associazione mafiosa, scaturito dalle faticose e minuziose indagini del primo pool antimafia, e dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Ma la posizione del boss di Cinisi rinviato a giudizio come gli altri, finito in carcere negli Stati Uniti dov’era accusato di traffico di droga, venne stralciata per il «legittimo impedimento a comparire dell’imputato», detenuto all’estero. Per don Tano gli orologi della giustizia italiana sono rimasti fermi fino al 2001, quando il procedimento è ripreso grazie ai collegamenti in video-conferenza dagli Usa. Da allora altre lungaggini tra cambio dei giudici, notifiche e citazioni hanno consentito lo svolgimento di pochissime udienze. Finché il 13 maggio 2004 un certificato arrivato dal Massachusetts intestato a Badalamenti Gaetano, deceduto il 29 aprile, ha chiuso la vicenda giudiziaria con la formula del «non doversi procedere per morte del reo».

E qui entra in gioco la legge. Senza condanna per mafia non ci può essere confisca dei beni, dunque si deve procedere alla restituzione di ciò che era stato sequestrato. Di fronte alla richiesta dell’avvocato, in attesa del pronunciamento dei giudici, la Procura di Palermo non ha potuto far altro che esprimere parere favorevole. Ma c’è un’altra procedura di sequestro tuttora pendente, davanti al tribunale per le misure di prevenzione, che rischia la stessa sorte.

Nel 1991 è cambiata la normativa, e la richiesta della misura già applicata ai beni di Badalamenti dal pool antimafia dell’Ufficio istruzione viene riformulata dalla Procura della Repubblica. Per passare dal sequestro alla confisca delle proprietà dirette e indirette del boss, il tribunale deve avviare una procedura che prevede il contraddittorio con l’imputato. Badalamenti chiede di essere presente, ma siccome è sempre detenuto negli Usa non può. Il tribunale avvia una rogatoria per andarlo a interrogare nel carcere americano dov’è rinchiuso, e nel 1993 s’intravede uno sbocco: i timbri e le autorizzazioni sono a posto, ma a questo punto sorge la complicazione del difensore di fiducia. L’avvocato Gullo comunica ai giudici che per ragioni professionali non può recarsi negli Stati Uniti, «anche per il futuro».

Davanti a questo impedimento la procedura resta impantanata per anni, senza giungere al traguardo della confisca dei beni, possibile anche in assenza della condanna penale. Ad aprile scorso Badalamenti muore e il suo avvocato ha la possibilità di chiedere la restituzione del patrimonio pure al tribunale per le misure di prevenzione. Cosa che ha puntualmente fatto: la scomparsa del «proposto», secondo le norme attuali, non prevede la riconsegna dei beni solo se è già arrivata la confisca (seppure sottoposta ad appello, quindi non definitiva), non il semplice sequestro. Don Tano Badalamenti è morto, all’età di ottant’anni, senza che una sentenza l’abbia riconosciuto come mafioso; a suo carico, in Italia, c’era solo la condanna di primo grado per l’omicidio Impastato. Troppo poco per evitare la beffa della restituzione dei beni sequestratigli da Falcone e Borsellino.

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