Da Corriere della Sera del 16/11/2004

La resa del soldato Powell, fiero dell’America

I giochi di potere piegano il vecchio militare sopravvissuto alle gang del Bronx, al razzismo, al Vietnam

di Gianni Riotta

WASHINGTON - Il vecchio guerriero s’è arreso. Colin Powell, 67 anni, 35 passati sotto le stellette dell’esercito, dal 2000 segretario di Stato per il presidente George W. Bush, si dimette. Gli intrighi di Washington piegano il ragazzo cresciuto nel South Bronx, sopravvissuto alle gang, al razzismo, al Vietnam e all’Iraq di Saddam Hussein. Ancora nel weekend un suo caro amico, repubblicano moderato, giurava «Colin si dimetterà solo se butta la spugna anche Rumsfeld, sua nemesi al Pentagono».

Tutto divide Colin da «Rummy». Il generale diventato capo della diplomazia Usa ha dato il suo nome alla «dottrina Powell», fare guerra solo con il consenso dell'opinione pubblica e mettendo in campo la piena, brutale, forza dell'esercito, «il nostro mestiere è sfasciare e ammazzare, non creare nazioni», mormorava amaro.

Rumsfeld è invece persuaso che la «dottrina Powell» sia un lusso della Guerra Fredda e che nella guerra globale al terrorismo occorra agire anche unilateralmente, non solo di fronte agli alleati ma perfino davanti ai cittadini. Troppo alto il pericolo di attentati per replicare solo con l’adesione popolare e internazionale. Quanto all’esercito, Rumsfeld predilige la guerra di commandos della Cia, computer e satelliti, combattuta in Afghanistan e la corsa «leggera» verso Bagdad dei marines nel 2003, ai carri armati e ai cannoni poderosi prediletti da Powell.

Il guerriero ha perduto. Il suo «viaggio americano», immagine cui ha ispirato la sua autobiografia, arriva al capolinea. Ha perduto quel giorno alle Nazioni Unite, quando ha investito il suo immenso prestigio alzando la finta fiala di antrace e richiamando il mondo ai pericoli, reali, del terrorismo armato di ordigni chimici e nucleari. Quando ha mostrato i pannelli con i laboratori mobili di Saddam, ripetendo la lezione della prima guerra del Golfo, 1990-1991, «fidatevi di me». Allora i giornalisti cinici del dopo Vietnam s'erano fidati e Powell aveva mantenuto le promesse, liberando il Kuwait e fermando la formidabile coalizione internazionale guidata da George Bush padre, sotto l'egida Onu e con russi e arabi in campo, senza far cadere Saddam nei limiti della Risoluzione Onu. I conservatori non gliela perdonano e delegano l'ex deputato Newt Gingrich a tacciarlo di fanfarone impotente in una velenosa serie di articoli.

La fiala dell'Onu, però, resta vuota, le armi di sterminio di massa sulle quali ha scommesso la faticosa ascesa dai mattoni rossi del Bronx, rampollo di immigrati giamaicani, al marmo della capitale, non si trovano. Powell è solo. I falchi, ispirati dal vicepresidente Dick Cheney, guidati da Rumsfeld e dal suo vice Paul Wolfowitz, lo allontanano da Bush. La sua prediletta Condoleezza Rice, affidatagli dall'amico e sodale Brent Scowcroft, generale fedele alla «dottrina Powell», si allea con i duri. Gli uomini della guerra globale contro i veterani della guerra fredda. Il generale Shalikasvili, capo di stato maggiore dell'esercito, si scontra con Rumsfeld sul numero di soldati indispensabili a pacificare l'Iraq, 400.000 secondo l'ufficiale, 250.000 per Rumsfeld, e viene spedito in pensione senza indugi. Powell è accerchiato.

Da vero soldato, il ministro dimissionario ha ringraziato ieri il presidente, dicendosi fiero di avere servito nella guerra al terrorismo e nel «rinsaldamento delle alleanze». In realtà ha dovuto sopportare la rottura con «la vecchia Europa» e l’indifferenza per le Nazioni Unite. Tanti suoi paladini si dicono, giustamente, delusi dal segretario Powell, troppo poco reattivo in una stagione di fuoco. Il generale arrivato al Dipartimento di Stato sull'eco di una possibile candidatura presidenziale, adorato da migliaia di cittadini, confortato dall'indice di consenso più alto del governo, non ha mai voluto rischiare, perdendo la partita politica e diplomatica. La «dottrina Powell» mal si addice alla lotta dentro la Casa Bianca, dove occorre agire anche con un filo di consenso, e sempre senza «forza assoluta» a proprio favore. Cheney, Rumsfeld, Rice e Wolfowitz vincono con Bush.

Solo una missione personale, coraggiosa e spericolata, poteva a quel punto salvare Powell e la sua filosofia. Mettersi su un aereo, volare da una capitale all’altra, diventare commesso viaggiatore dell’America moderata in Medio Oriente, Europa, con Kofi Annan, ottenere un successo concreto, non solo di immagine. Il vecchio soldato, congedatosi dicendo «troppa naia, odio viaggiare, amo dormire a casa» non si sente di andare in crociata. La sua risposta al terrorismo globale è timida, quando quella dei neoconservatori è avventata. Bush, obbligato ad agire dall’11 settembre, preferisce l'azzardo della guerra di movimento, all'inerzia della guerra di posizione. Powell si rassegna, e si confida con l'amico giornalista Bob Woodward che, in più volumi, ne difenderà l'operato, rendendo celebre la massima offerta a Bush: «Se invade l’Iraq, signor presidente, diventa proprietario di 25 milioni di iracheni. Chi rompe paga e i cocci sono suoi!».

La storia dei primi anni del XXI secolo ricorderà la vittoria di Pirro di Powell, che impegna Bush a cercare una seconda risoluzione all'Onu contro Saddam, pur di portare nella coalizione contro Bagdad francesi e tedeschi. Il presidente Chirac, e il ministro de Villepin, all'ultimo momento, annunciano di non essere disposti al blitz, qualunque cosa decida il Consiglio di Sicurezza. «I francesi mi han sfilato il tappeto da sotto i piedi» ammette Powell, sconfitto. Se l'è cavata con i poliziotti razzisti che volevano arrestarlo da giovane tenente, in Vietnam ai tempi della strage di My Lai, come primo capo di stato maggiore afroamericano. Ora è finita. La sua cultura, fedeltà alla bandiera, fiducia nelle regole dei corridoi di Washington, strategia classica della guerra fredda, non conosce il linguaggio frenetico della guerra globale. Il discorso più bello del segretario Powell, pronunciato davanti a una classe di liceali, non riceverà neppure una riga in Europa: a uno studente che gli chiede come mai gli Usa attacchino Saddam quando hanno fomentato il golpe contro il presidente cileno Salvador Allende nel 1973, Powell riconosce serio: «Non è una pagina di storia americana di cui possiamo essere fieri». Voleva il potere, Colin Powell, ma restando fiero di sé e del proprio Paese. Troppo per un generale vecchio stampo, a disagio nei nostri tormentati giorni. «I vecchi soldati non muoiono mai, si limitano a scomparire» disse ai cadetti di West Point il generale MacArthur, vaticinando, senza saperlo, il destino agro del guerriero Powell.

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