Da La Repubblica del 18/11/2004

Dove ci porta l´America di Bush

di Massimo L. Salvadori

Se gli Stati Uniti fossero una potenza di secondo rango, potremmo limitarci a domandare: dove va l´America? Ma poiché questa è la superpotenza solitaria, l´interrogativo giusto è: dove porta tutti noi l´America? Il punto obbligato di partenza di ogni riflessione è che ora Bush si presenta non più come colui che ha rubato la vittoria ad Al Gore, ma come il rappresentante indiscusso della maggioranza del suo popolo.

Orbene, da questo viene una conseguenza: che non ci si può attendere che l´amministrazione repubblicana, dati i suoi orientamenti prevalenti, possa esercitare una "normale" leadership sul mondo occidentale. Bush ha infatti costruito la sua vittoria chiamando a raccolta tutte le forze disposte a unirsi intorno ad una bandiera dove sono scritte le parole d´ordine della guerra in difesa degli interessi nazionali proiettati sulla scena mondiale, della divisione degli stessi Paesi occidentali in amici e non amici degli Stati Uniti, della contrapposizione tra una politica sostenuta da una concezione fondamentalista della religione e una politica ispirata ai valori del laicismo e del pluralismo rispettoso delle scelte individuali nei modi di costruire la propria esistenza, tra l´esaltazione impietosa dell´appropriazione privata della ricchezza (appena mitigata dalla benevolenza caritatevole dei ricchi) e la solidarietà sociale tradotta in istituzioni. Come rispondere, dunque, alla situazione creata dalla clamorosa vittoria di Bush?

E´ chiaro a chiunque abbia un minimo di senno che non ha senso discutere facendo appello alle categorie del "filoamericanismo" o dell´"antiamericanismo" assunte in maniera pregiudiziale. Chi lo fa non compie che un esercizio di retorica, vuoto e inconcludente. Gli Stati Uniti, come tutti gli altri Paesi, vanno giudicati per ciò che concretamente sono stati e sono, hanno fatto e fanno. Vi è stata l´America di Wilson, di Roosevelt, di Kennedy, di Clinton e quella di Hoover, di Nixon, di Reagan e ora vi è quella di Bush II. Americhe assai diverse. Ciò detto, che cos´è l´America di oggi in mano ai teorici e ai politici della "rivoluzione neoconservatrice"? Questo è il problema che abbiamo di fronte, con cui dobbiamo fare i conti e verso il quale ciascuno deve assumere posizione, sapendo che questa America è inevitabilmente anche la nostra per gli effetti che da essa vengono a tutti noi e che le sorti della democrazia nel mondo dipendono largamente da quelle della democrazia americana.

Il presidente americano - molti lo hanno già osservato - ha rilanciato nel mondo occidentale lo scontro delle ideologie, intese come sintesi di valori, orientamenti e fini da perseguire. E´ un aspetto che non si può ignorare. Chi credeva - come l´innocente Fukuyama - che il crollo del comunismo avesse definitivamente portato alla fine delle ideologie nel quadro di una generale tendenza all´omologazione - ha ormai di che ricredersi. Finite sono le vecchie ideologie otto-novecentesche. Sennonché, ogni volta che ci si trova divisi da differenti e persino opposti progetti e concezioni della società, le ideologie inevitabilmente rinascono. L´integralismo islamico ne è un volto, il neoconservatorismo americano che poggia sul fondamentalismo cristiano un altro. Queste sono attualmente le ideologie "all´attacco". Quale ideologia è in grado di opporre il pluralismo laico, democratico, sensibile ai principi della solidarietà sociale?

Preliminare ad ogni risposta, è il tentativo di comprendere quale sia nel momento presente lo stato della democrazia negli Stati Uniti. Nel suo grande libro Tocqueville si lanciò nella profezia che in America i ricchi avrebbero costituito sì un´aristocrazia ma politicamente non pericolosa. Si trattò di un punto di vista destinato ad essere nettamente contraddetto dal corso storico sociale, politico e culturale degli Stati Uniti. E, infatti, a partire dalla seconda metà dell´Ottocento, non solo grandi intellettuali di vario orientamento come Sumner, Lloyd, George, Veblen e molti altri, ma anche presidenti come Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson, Franklin D. Roosevelt non cessarono di denunciare in maniera ininterrotta il pericolo che il big business non solo influisse potentemente sui governi (il che rientrava pur sempre nella normalità del gioco democratico), ma mirasse ad asservire direttamente il potere politico ai suoi interessi, così da portare la plutocrazia al potere. Orbene, la domanda che oggi si impone di fronte agli sviluppi venuti a determinarsi in America e alla quale non è lecito sottrarsi è se in questo Paese si sia davvero giunti ad una condizione in cui il governo federale non debba essere considerato come l´immediata espressione degli interessi dominanti della plutocrazia, se la democrazia americana non si trovi ad essere profondamente alterata a partire dal dato di fatto, che non riguarda questo o quel partito ma l´insieme del sistema politico, per cui - a totale smentita del persistente mito, tanto insistentemente agitato quanto nella realtà usurato, delle pari opportunità - nessun candidato che non appartenga al mondo del big business o non sia direttamente sostenuto da questa o da quella delle sue componenti non ha alcuna possibilità di competere, se non formalmente, per la presidenza e di accedere ad essa.

Ma più che l´esponente di un potente settore della plutocrazia dominante, Bush appare esserne la diretta creatura. Personalmente tutto meno che un gigante, è reso tale dall´essere stato collocato dalla plutocrazia sulle proprie spalle: ha legato a sé, grazie alle immense risorse materiali messe a sua disposizione, grandi masse di cui ha sollecitato e sfruttato le paure e le pulsioni più retrive in campo civile, politico, religioso e culturale, mobilitandole contro la scienza di Darwin e il pluralismo culturale democratico in nome della parola di Dio e del conformismo illiberale e addirittura oscurantista che Tocqueville aveva tanto acutamente paventato.

Cercare di chiudere gli occhi, aspettare che passi la nottata, pensare che, se Bush ha vinto con queste armi, bisogna imparare ad usarle allo stesso modo è una strada che porta allo sbandamento. Due sembrano le conclusioni da tirare. La prima che ci si deve aspettare che l´onda lunga - la quale viene non dall´America tout court, ma dall´America di Bush che fa rivivere i fantasmi che avevano inquietato Madison della "tirannide" di una maggioranza pronta ad agire come uno schiacciasassi contro la minoranza - si abbatterà con forza anche sull´Europa, con lo scopo di dividerla ulteriormente. La divisione del nostro continente in "vecchia" e "nuova Europa" operata in occasione della guerra irachena è destinata con ogni probabilità a non essere se non un´anticipazione. Non vi è dubbio che tra Bush e Zapatero non vi è compatibilità. La seconda è che a questa onda ci si può opporre unicamente guardando molto al di là del piano della gestione politica corrente. Qui sono in gioco i modi di vivere. Bisogna perciò che gli individui, i gruppi, le culture, le forze politiche vadano alle radici dei loro valori e dei fini che intendono porre a fondamento delle società e per cui vogliono battersi. E´ il tempo delle scelte. Chi si illude di poter non scegliere finirà inevitabilmente per subire le scelte altrui.

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