Da La Stampa del 23/11/2004

Il vertice del disaccordo

di Lucia Annunziata

Le Conferenze internazionali hanno una lunga tradizione di inutilità. Ad esempio, proprio a Sharm el-Sheikh nel 2000 si tenne l’ultima riunione sul Medio Oriente da un Clinton in affannosa rincorsa, sotto elezioni, di un accordo fra israeliani e palestinesi. Sfociò nella Commissione Mitchell, famosa per aver prodotto un solo rapporto e seppellita dalla seconda Intifada.

Per quel che riguarda il destino dell’incontro di stamattina, poche indicazioni sono più chiare del fatto che l’America vi è rappresentata da un Segretario di Stato bruscamente sfrattato dal suo posto per mancata coerenza con la sua stessa amministrazione. Certo, si può dire che nelle alte sfere di un Paese la rappresentanza rimane indipendentemente dalle persone, ma in questo caso l’avvicendamento fra Powell e la Rice non è avvenuto nel segno della continuità bensì del dissenso. Quale linea dunque va a rappresentare Powell, a chi manderà i suoi rapporti, che tecnicamente non avrà neppure il tempo di redigere? E’ difficile pensare che se Condoleezza avesse davvero tenuto a questo incontro non avrebbe fatto in modo di esserci. La presenza di un Segretario di Stato scaduto dà dunque al vertice un segno fortemente negativo, che per i Paesi partecipanti è al limite della beffa.

D’altra parte la Conferenza è essa stessa un appuntamento occasionale, nata com’è non da un progetto, ma da una serie incatenata di calcoli elettorali. L’idea venne lanciata dal premier iracheno Allawi tre mesi fa, nel corso di un tour diplomatico per rendere accettabile la sua elezione e conquistare consensi internazionali per le prossime elezioni del 30 gennaio. Venne poi in fretta e furia abbracciata da Colin Powell nella coda della campagna elettorale americana per aiutare il Presidente sul fronte degli scontenti. E venne subito accettata da Europa, Russia e Cina nella segreta convinzione che avrebbe vinto Kerry.

Invece ha vinto Bush e nel famoso resort turistico egiziano ognuno arriva con le rogne di sempre, un po’ peggiorate: i francesi, per fare un dispetto agli americani, hanno chiesto la partecipazione di gruppi della resistenza - gli è stato risposto di no, naturalmente; l’Onu cui dovrebbe essere dato il ruolo di gestore delle elezioni del 30 gennaio in Iraq, non ha comunque sciolto la sua riserva sul ritorno del proprio personale nel Paese; gli iraniani hanno rifiutato un «bilaterale» con Powell (tanto è facile sparare su un’anatra zoppa); Russia e Cina si tengono sulla loro linea di rifiuto a farsi coinvolgere. L’unica nota positiva prima della Conferenza è, a guardarla bene, positiva solo a metà: la riunione del Club di Parigi che tre giorni fa ha deciso di cancellare il debito estero dell’Iraq, ha legato questa operazione a un programma economico del Fondo Monetario, mentre gli americani chiedevano un semplice colpo di spugna. Un Paese ricco di petrolio, è stato l’argomento soprattutto francese, non può avere facilitazioni pensate per i Paesi sottosviluppati. Sempre sul fronte economico, è molto improbabile che l’appello a riprendere lo sforzo di assistenza economica all’Iraq venga ascoltato: intanto perché la crisi nei Paesi donatori si fa sentire, e poi perché – realisticamente - tanto vale che essi trattino gli aiuti con il nuovo gabinetto americano al completo e il nuovo governo iracheno che uscirà dalle elezioni di gennaio.

Cosa resta dunque della Conferenza? Il sedersi insieme, il riunirsi sotto uno stesso tetto di Paesi in profondo contrasto. Un gesto che comunque lancia - mediaticamente, se non sostanzialmente - le elezioni prossime irachene sotto una copertura internazionale. Ma la sostanza del contendere rimane ferma. L’unica vera decisione che avrebbe dovuto scaturire da questa conferenza era l’annuncio dei tempi di un ritiro delle truppe Usa e britanniche. Ma le due nazioni hanno rifiutato di inserire nella mozione finale date precise, e in assenza di questo impegno, le relazioni internazionali rimangono al momento quello che sono.

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