Da Corriere della Sera del 17/12/2004
Ansia a Istanbul per il verdetto dei Venticinque. Erdogan ostenta freddezza: «Se falliremo, non sarà la fine del mondo». I consiglieri: non accetterà un’adesione dimezzata
La sirena velata
Provocazione a Copenaghen
di Antonio Ferrari
ISTANBUL - Euforia no. Speranze tante. Timori troppi. Illusioni nessuna. Le rassicuranti immagini televisive di Recep Tayyip Erdogan, che sbarca sorridendo a Bruxelles, non hanno placato l'ansia dei turchi. Al contrario, l'hanno accentuata le ultime dichiarazioni del premier: «Se il risultato fosse negativo, non sarebbe la fine del mondo». «L'Ue, che si avvia a diventare una superpotenza, con noi sarebbe ancora più forte». «Abbiamo realizzato i criteri decisi a Copenaghen, ai quali resteremo fedeli per il bene della Turchia. Ma se ci chiederanno di più, non accetteremo». Conseguenza: la gente, che oggi attende il verdetto dell'Ue, è come schizofrenica, in bilico tra la certezza di poter superare l'esame e lo scoramento anticipato per un eventuale seppur improbabile fallimento.
Il primo ministro ha fatto di tutto per confonderla. L'altro giorno aveva detto che «se l'Unione Europea sceglierà di restare un club cristiano, il terrorismo con motivazioni religiose crescerà, e la Ue sarà obbligata a pagare un alto prezzo». Frase quasi minacciosa, che le smentite e le spiegazioni sul suo «autentico significato» non sono riuscite a correggere. Alcuni analisti sostengono che l'inopportuna esternazione di Erdogan, che alterna freddezza a calcolata emotività, sia la stizzita risposta ai dubbi europei dell'ultima ora. Altri ritengono che il premier, a ridosso del verdetto, abbia cercato di preparare il suo popolo all'ipotesi peggiore. Non perché la tema, ma perché non si sa mai.
Non a caso, tre giorni fa, commentando il nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito di 10 miliardi di dollari, il ministro dell'Economia Alì Babacan aveva dichiarato che la Turchia è preparata a tutto. Forse voleva dire che, nel caso di fumata nera, sono state attivate le misure necessarie per evitare il crollo della Borsa di Istanbul, o più semplicemente che Ankara, se dovesse essere delusa da insormontabili ostacoli europei, cercherebbe altre strade. Impresa proibitiva, perché il governo del partito islamico moderato della Giustizia e dello Sviluppo ha puntato tutto sul negoziato di adesione all'Ue, promettendo di realizzare un sogno inseguito per oltre 40 anni; ed è stato pronto a dimenticare (per mancanza di tempo) di curare i rapporti con gli storici alleati americani. Erdogan ha ricevuto soltanto lunedì l'ambasciatore-Usa, Eric Edelman, dopo averlo costretto ad un'umiliante anticamera di sei settimane. E il ministro degli Esteri Abdullah Gul ha candidamente ammesso un allentamento (deterioramento?) dei rapporti bilaterali, cominciato con la guerra all'Iraq, e ora dovuto agli «impegni per preparare il cruciale appuntamento con l'Ue». Un appuntamento che gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto e incoraggiato (beata gratitudine!).
Ma se la Turchia, in queste ore frenetiche, sembra confusa, Bruxelles non è da meno. Fino a qualche anno fa, la diffidenza dell'Ue nei confronti del gigante musulmano si faceva scudo della Grecia, e dei suoi timori di una guerra con il potente vicino. Oggi l'alibi non esiste più. Atene è tra i più convinti sponsor di Ankara, mentre lo scetticismo giunge soprattutto dall'inconsueto triangolo composto da Francia, Danimarca e Austria. Il problema, in questo momento, non è tanto la data (i negoziati dovrebbero cominciare nel 2005: quasi tutti ritengono nel secondo semestre, sotto la presidenza di turno britannica) quanto il documento, che sarà firmato oggi da 25 capi di Stato e di governo. Un documento di cui la Turchia teme la formulazione. Lo vorrebbe il più laconico possibile, senza alcun riferimento al genocidio degli armeni (suggerito da Parigi), all'identità della minoranza curda, e soprattutto alla necessità di riconoscere preliminarmente la Repubblica greco-cipriota. «Credo che stanotte non andremo a dormire», ha detto ieri Erdogan. Più possibilista su Cipro del suo ministro degli Esteri Gul.
La «formula magica», come la chiamano i giornali turchi, è possibile, anzi quasi sicura perché può contare sull'abilità della diplomazia. Molte speranze sono riposte nella presidenza olandese, che mai come in questi giorni ha ricevuto da Ankara lusinghieri attestati di credibilità. C'è però una linea rossa, che Erdogan, che si dice alfiere di una «rivoluzione silenziosa», non è disposto ad attraversare. Questo scaltro Giano bifronte, cui molti riconoscono qualità di statista, non accetterà mai una retrocessione. Rinunciare alla «piena adesione» e inghiottire la proposta (ormai tramontata) di un negoziato minore per creare una «speciale relazione» con l'Ue, è fuori discussione. Vorrebbe dire tornare a casa e «chiudere il dossier nel freezer», come ha detto il premier.
I mass media di Istanbul, in questi giorni, grondano dibattiti a proposito dei dubbi avanzati da alcuni sulla legittimità delle aspirazioni europee del Paese. Qui, con amarezza, si risponde che, mentre l'impero ottomano si stava decomponendo, nelle cancellerie di Londra, Parigi, Roma e Berlino si parlava della Turchia come del «grande malato d'Europa», non certo del «grande malato dell'Asia».
Il primo ministro ha fatto di tutto per confonderla. L'altro giorno aveva detto che «se l'Unione Europea sceglierà di restare un club cristiano, il terrorismo con motivazioni religiose crescerà, e la Ue sarà obbligata a pagare un alto prezzo». Frase quasi minacciosa, che le smentite e le spiegazioni sul suo «autentico significato» non sono riuscite a correggere. Alcuni analisti sostengono che l'inopportuna esternazione di Erdogan, che alterna freddezza a calcolata emotività, sia la stizzita risposta ai dubbi europei dell'ultima ora. Altri ritengono che il premier, a ridosso del verdetto, abbia cercato di preparare il suo popolo all'ipotesi peggiore. Non perché la tema, ma perché non si sa mai.
Non a caso, tre giorni fa, commentando il nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito di 10 miliardi di dollari, il ministro dell'Economia Alì Babacan aveva dichiarato che la Turchia è preparata a tutto. Forse voleva dire che, nel caso di fumata nera, sono state attivate le misure necessarie per evitare il crollo della Borsa di Istanbul, o più semplicemente che Ankara, se dovesse essere delusa da insormontabili ostacoli europei, cercherebbe altre strade. Impresa proibitiva, perché il governo del partito islamico moderato della Giustizia e dello Sviluppo ha puntato tutto sul negoziato di adesione all'Ue, promettendo di realizzare un sogno inseguito per oltre 40 anni; ed è stato pronto a dimenticare (per mancanza di tempo) di curare i rapporti con gli storici alleati americani. Erdogan ha ricevuto soltanto lunedì l'ambasciatore-Usa, Eric Edelman, dopo averlo costretto ad un'umiliante anticamera di sei settimane. E il ministro degli Esteri Abdullah Gul ha candidamente ammesso un allentamento (deterioramento?) dei rapporti bilaterali, cominciato con la guerra all'Iraq, e ora dovuto agli «impegni per preparare il cruciale appuntamento con l'Ue». Un appuntamento che gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto e incoraggiato (beata gratitudine!).
Ma se la Turchia, in queste ore frenetiche, sembra confusa, Bruxelles non è da meno. Fino a qualche anno fa, la diffidenza dell'Ue nei confronti del gigante musulmano si faceva scudo della Grecia, e dei suoi timori di una guerra con il potente vicino. Oggi l'alibi non esiste più. Atene è tra i più convinti sponsor di Ankara, mentre lo scetticismo giunge soprattutto dall'inconsueto triangolo composto da Francia, Danimarca e Austria. Il problema, in questo momento, non è tanto la data (i negoziati dovrebbero cominciare nel 2005: quasi tutti ritengono nel secondo semestre, sotto la presidenza di turno britannica) quanto il documento, che sarà firmato oggi da 25 capi di Stato e di governo. Un documento di cui la Turchia teme la formulazione. Lo vorrebbe il più laconico possibile, senza alcun riferimento al genocidio degli armeni (suggerito da Parigi), all'identità della minoranza curda, e soprattutto alla necessità di riconoscere preliminarmente la Repubblica greco-cipriota. «Credo che stanotte non andremo a dormire», ha detto ieri Erdogan. Più possibilista su Cipro del suo ministro degli Esteri Gul.
La «formula magica», come la chiamano i giornali turchi, è possibile, anzi quasi sicura perché può contare sull'abilità della diplomazia. Molte speranze sono riposte nella presidenza olandese, che mai come in questi giorni ha ricevuto da Ankara lusinghieri attestati di credibilità. C'è però una linea rossa, che Erdogan, che si dice alfiere di una «rivoluzione silenziosa», non è disposto ad attraversare. Questo scaltro Giano bifronte, cui molti riconoscono qualità di statista, non accetterà mai una retrocessione. Rinunciare alla «piena adesione» e inghiottire la proposta (ormai tramontata) di un negoziato minore per creare una «speciale relazione» con l'Ue, è fuori discussione. Vorrebbe dire tornare a casa e «chiudere il dossier nel freezer», come ha detto il premier.
I mass media di Istanbul, in questi giorni, grondano dibattiti a proposito dei dubbi avanzati da alcuni sulla legittimità delle aspirazioni europee del Paese. Qui, con amarezza, si risponde che, mentre l'impero ottomano si stava decomponendo, nelle cancellerie di Londra, Parigi, Roma e Berlino si parlava della Turchia come del «grande malato d'Europa», non certo del «grande malato dell'Asia».
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