Da La Repubblica del 30/12/2004

La provincia ha aperto solo ieri i suoi confini. Tutto distrutto fino a sei chilometri dalla costa

In volo sulla città dei defunti dove regnano acqua e fango

Sumatra, i primi aiuti nell´inaccessibile Banda Aceh

di Pietro Del Re

BANDA ACEH (SUMATRA) - Sono ovunque, lungo le strade, nelle stazioni di servizio, sull´erba dello stadio di calcio, ordinatamente adagiati uno sopra l´altro, fino a formare muri di cadaveri.

Sono migliaia i corpi che da giorni giacciono in attesa della sepoltura, ognuno rinchiuso nella sua sacca arancione. A Banda Aceh, il capoluogo della provincia di Sumatra più colpita dall´onda assassina, ci sono troppi morti rispetto ai vivi. Mancano camion per portare via le salme e mancano uomini per ricomporle. Manca perfino la terra per inumarle, perché il mare non vuole riassorbire i miliardi di litri d´acqua con cui domenica scorsa ha seminato dolore e devastazione.

Arriviamo nella città dei defunti con un aereo che trasporta personale umanitario. Di fronte alle spaventose dimensioni che la tragedia sta assumendo in Indonesia, da ieri le autorità di Giakarta hanno finalmente deciso di abrogare la legge marziale che, per via di un´annosa guerra indipendentista divenuta improvvisamente troppo sanguinaria, dal 2003 impediva l´accesso degli stranieri nella provincia. Appena atterrati veniamo accolti da una folla festosa. Ma non portiamo cibo, né farmaci con noi. E´ una missione di ricognizione. E la gioia di questa moltitudine composta da sopravvissuti rimasti senza tetto si trasforma subito in rabbia. Uno di loro agita un pesciolino secco urlando che è l´unico nutrimento che può offrire ai suoi tre figli. Un altro, in segno di protesta, si colpisce forsennatamente il braccio fasciato, lanciando belluine urla di dolore. Tra loro, mi spiega un medico indonesiano ci sono anche persone che la casa ce l´hanno, ma che sono rimaste traumatizzate dal terremoto da voler fuggire il più lontano possibile.

L´aeroporto si trova a una decina di chilometri dalla città. Al sicuro ma non troppo, visto che ad Aceh lo tsunami si è spinto sei chilometri verso l´interno delle terre, spazzando tutto ciò che trovava sul suo cammino.

La visita in città è breve, giusto il tempo, per gli operatori umanitari della missione, di poter stabilire dove sistemare il loro quartier generale. E´ ancora irriconoscibile la piazza che si trova di fronte alla grande moschea di Baitur Rahman, lo splendido monumento con i muri bianco latte e le cupole color liquirizia, costruito dagli olandesi alla fine dell´Ottocento per ingraziarsi gli acehnesi. Come questa storica piazza è anche il resto di Banda Aceh: ancora colmo di detriti, lamiere, tronchi d´albero divelti, carcasse di automobili.

Durante il volo di ritorno verso Medan, città di Sumatra dove si stanno concentrando i soccorsi per Aceh, il pilota decide di sorvolare il versante occidentale della provincia, quello più devastato, poiché di fronte all´epicentro del sisma. Lo spettacolo che ci attende è, se possibile, più atroce di quello cui abbiamo appena assistito. L´aereo scende di quota, fino a tre-quattrocento metri da terra. Ed ecco che appare Meulaboh, o meglio quel che ne resta: una larga distesa di acqua e fango, un´altra città di morti.

Dall´alto fa pensare a un puzzle appena cominciato, pieno di macchie bianche. Dove ognuna di queste indica una casa crollata.

Meulaboh si trova a centocinquanta chilometri dal cuore del sisma. Domenica scorsa, le case sono state prima fortemente danneggiate dalla scossa di terremoto, poi su quelle macerie si è abbattuta la violenza dei flutti. Ieri, il vicepresidente indonesiano, Jusuf Kalla, ha dichiarato che appena il venti per cento degli edifici aveva retto al cataclisma. Poco dopo, attraverso la radio locale, è giunta anche la voce del sindaco della città, Tengku Zulkanaen: «Eravamo quarantamila abitanti, molti dei quali sono sicuramente morti».

E´ isolata dal 26 dicembre scorso Meulaboh, irraggiungibile sia via terra (le strade sono state distrutte) e sia via mare (le macerie impediscono l´accesso ad ogni imbarcazione). Perfino in città è difficile muoversi, poiché tutti i ponti che collegavano tra loro i quartieri di questo porto sono stati sgretolati. Dal finestrino dell´aereo vedi i sopravvissuti che come formichine si affaccendano lungo le poche strade riemerse. Un segnale di vita che i primi voli d´avvistamento non avevano percepito.

Fino a due giorni fa, le autorità erano convinte che gli abitanti di Meulaboh fossero tutti deceduti. Finalmente i primi sopravvissuti sono usciti dalle loro case, si sono fatti sentire, vedere, e gli elicotteri hanno cominciato a paracadutare viveri e medicinali. Perché solo dal cielo possono arrivare gli aiuti.

Tuttavia, in questa martoriata città il peggio potrebbe ancora accadere. Secondo le prime testimonianze ci sono migliaia di cadaveri in avanzato stato di decomposizione.

Sono intrappolati tra le macerie, o galleggiano in acqua, o sono impigliati tra i rami degli alberi. Oltre a ripristinare l´elettricità, curare i feriti, nutrire gli affamati, il primo problema che dovrà adesso risolvere il governo di Giakarta è come raccogliere e inumare questi corpi.

L´Indonesia Menangis, piange l´Indonesia, questo è diventato lo slogan della tragedia nella repubblica delle diciassettemila isole. E´ la frase che apre le trasmissioni televisive dedicate all´argomento e le edizioni speciali dei quotidiani locali. L´Indonesia piange i suoi morti, anche se sono tutti abitanti di una provincia «indipendentista». Piange i quindicimila morti di Banda Aceh e i diecimila di Meulaboh. Ieri, l´ultimo bilancio era raccapricciante. Le vittime accertate nel paese sono quarantacinquemila.

L´onda assassina di domenica ha superato il triste primato dello tsunami provocato dall´eruzione del vulcano Krakatoa, a ovest di Java. Era il 1883, i morti furono trentaseimila.

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