Da Corriere della Sera del 10/01/2005

E anche nelle case dei kamikaze hanno scelto l’uomo del dialogo

di Aldo Cazzullo

BETLEMME - La foto di Abu Mazen, nuovo presidente palestinese, è incastrata nel ritratto del martire assassino. Mamma, papà, fratelli e sorelle vanno fieri del loro Muhammad che il 3 marzo 2002 si è fatto esplodere tra la folla di Mea Shearim, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, uccidendo nove ebrei; ma ieri hanno votato compatti per il leader moderato, l'uomo degli americani, l'interlocutore di Sharon. Se non ne possono più neppure loro, i parenti dei kamikaze, allora la pace ha davvero una possibilità.

La Via Dolorosa percorsa dai pellegrini di Gerusalemme sarebbe più realistica se ambientata nel campo profughi di Deheishe, alle porte di Betlemme. Qui non a caso venne il Papa nel 2000, ed è venuto l'arcivescovo di Milano Tettamanzi l'anno scorso. Abitanti 11 mila, bambini 4 mila, disoccupati tutti gli altri, tranne mille stipendiati dall'Onu e dall'Autorità palestinese. Fango, carcasse d'auto, seggi elettorali con una bacinella come urna, murales raffiguranti bambini che lanciano molotov. Sedici «shahid», martiri, come il direttore del campo Hussein Shahin chiama «tutti coloro che si sono immolati contro gli ebrei»: dieci uccisi dall'esercito, sei suicidi in Israele. Delle loro vittime qui non si è tenuto il conto.

Nur Hussein Shouhani e Muhammad Daraghmeh erano cugini e vicini di casa. Di loro è rimasto qualche pezzetto che gli specialisti israeliani hanno distinto e separato da quelli altrui, e un ritratto alla parete, con Kalashnikov, kefiah e simbolo delle brigate Al Aqsa. Nur aveva cinque fratelli e tre sorelle. Il maggiore si chiama Rami, ha 27 anni, gli occhi chiari e i capelli biondi coperti da un cappellino con il volto di Abu Mazen. «Tutta la famiglia ha votato per lui. Perché siamo stanchi. Io sono stato in prigione quattro volte: prima 18 giorni, poi due mesi, poi sei, poi un anno, nel supercarcere di Megiddo. Mio fratello Nur era già stato ferito a un braccio, all'inizio della seconda Intifada, negli scontri davanti alla tomba di Rachele. Per me è un eroe, non lo dimenticheremo mai. Tutte le notti sento mio padre piangere per lui. Ma non possiamo andare avanti così. Noi non siamo integralisti islamici; siamo nazionalisti. Vogliamo una patria e un lavoro, vogliamo la vita. Papà e io siamo gli unici in famiglia a lavorare. Quando mio fratello è morto, l'Autorità palestinese mi ha assunto come impiegato all'ufficio imposte del ministero delle Finanze, ad Abu Dis: ogni giorno per arrivarci devo passare tre posti di blocco. Mio padre insegna storia araba alle scuole elementari di Gerico, per lui la strada è ancora più difficile e insicura».

Nur Hussein Shouhani aveva 21 anni quando, il primo aprile 2002 - un mese dopo che il suo vicino Muhammad Daraghmeh aveva fatto strage a Gerusalemme -, si fece esplodere contro uno dei posti di blocco sulla via dei Profeti dove oggi passano i suoi familiari, mutilando due soldati israeliani. Pochi giorni dopo l'esercito venne a demolire entrambe le case. Ora le stanno ricostruendo con i denari dell'Unrua, l'organizzazione dell'Onu per i rifugiati. La casa degli Shouhani è quasi finita. Un tempio alla memoria di Nur. Le sue cose sono appese alle pareti: il berretto, la kefiah, il poster con la veduta di Gerusalemme, l'iscrizione «Allahu akbar», il ritratto di Arafat con il successore Abu Mazen. La casa dei Daraghmeh è ancora uno scheletro, in cui sono state ricavate due stanze dove Ahlam, la sorella di Muhammad, dorme con la madre, il padre, due fratelli e la sorellina. Il kamikaze è ritratto bambino da un pittore di strada, ragazzo sul diploma da carpentiere rilasciato dalla scuola professionale dei salesiani di Betlemme, incappucciato con il Kalashnikov delle brigate Al Aqsa, e inciso sul cuoricino d'oro appeso al collo della sorella.

«Eravamo tutti davanti alla tv - racconta Ahlam, velata di nero come le altre donne del campo - quando abbiamo visto le immagini del massacro e la foto di mio fratello. Nessuno di noi sapeva niente. L'immagine con il cappuccio ce l'hanno portata dopo i suoi compagni. Ho pianto tanto per lui. Non saprei dire se è un eroe, se ha compiuto un'impresa o un crimine. Credo non lo sapesse neppure lui: aveva 17 anni, era un ragazzo povero, non aveva studiato. Io ne ho appena compiuti 18, e ho potuto votare. Per Abu Mazen, come i miei genitori e mio fratello più grande. Abu Mazen è quel che c'è. Prima avevamo Arafat, adesso abbiamo lui».

Nella casa semidiroccata fa molto freddo, quando la radio (la tv è andata distrutta) annuncia l'elezione del nuovo presidente. I due leader del campo profughi, il direttore Hussein Shahin e il presidente del centro culturale Ziad Abbas, non hanno votato. «Andrò al seggio quando Israele abbandonerà l'idea di un puro Stato ebraico, e qui si abbandonerà l'idea di un puro Stato di Hamas» dice Abbas con un'occhiata ammiccante. Qui neppure Arafat è molto popolare. Quando il Papa passò tra gli applausi, il Raìs rimase ad aspettarlo in macchina, temendo contestazioni: l'Olp ha mantenuto ai rifugiati l'antico status per non perdere i soldi dell'Onu e un'arma di pressione politica. Anche Abu Mazen però è stato un profugo, il villaggio della Galilea dov'è nato ora è una città israeliana.

La sua netta vittoria può essere il riflesso di un popolo non avvezzo al multipartitismo, ma anche il segno della resa alla ragionevolezza. Questo dicono i familiari dei kamikaze. Nessuno di loro però sembra avere coscienza delle vittime dell'altro fronte. Neppure odio. Silenzio. Con la stessa indifferenza raccontano dei morti ebrei di Gerusalemme e sorridono a Nir, il fotografo ebreo che si chiama quasi come Nur e li mette in posa accanto al suo ritratto. Tutto quel che riescono a dirsi è che pure «dam'a» e «dmaot», le lacrime, in arabo e in ebraico si chiamano quasi allo stesso modo.

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