Da La Stampa del 10/01/2005
Originale su http://carta.lastampa.it/carta/edicola/nav/view.asp?user=20501&ses...

E adesso la pace possibile

di Igor Man

L’AVVENTO, quasi plebiscitario, di Abu Mazen sul fragile trono di Arafat non eliminerà certo l’occupazione, né eliminerà l’afflizione del popolo palestinese cui è stata confiscata la terra e, dunque, la patria. Ma ci dice, una volta ancora, come la democrazia sia un bene supremo poiché ti lascia scegliere liberamente. Il grigio Abu Mazen non è l’uomo di domani ma (forse) quello giusto in questo presente corrusco. Egli è l’uomo della tregua (hudna) faticosamente strappata agli irriducibili: Hamas, le Brigate al Aqsa, l'università di al Najah (Nablus) che forma architetti ma forgia altresì terroristi suicidi - quella tregua che dovrebbe avviare il processo di normalizzazione in forza del quale bukhra (domani, cioè: fra un giorno o diecimila, chissà) israeliani e palestinesi anziché ammazzarsi comincino, anzi ricomincino, a parlare di pace. Non quella - va detto subito - vaticinata dal vecchio Arafat, epico affabulatore, modesto stratega, geniale tattico, bensì la cosiddetta «pace possibile»: un realistico compromesso tra il patto leonino della Destra israeliana e il sogno, palestinese, del ritorno a Gerusalemme.

Ho già scritto d’aver ricavato la convinzione, ascoltando l’Arafat degli ultimi tempi (prima degli arresti domiciliari impostigli da Sharon), che al Khitiar, il vecchio, oramai non credesse più di tanto alla «pace dei bravi» della quale si riempiva la bocca. L’ultimo Arafat giuocava l’illusione: intelligente com’era, dannatamente intuitivo, si rendeva conto che l’unica pace cui potesse aspirare sarebbe stata, per forza di cose, una pace scamuffa, ma ammetterlo lo considerava un tradimento. Uno dei tre ragazzi buoni, onesti, fedeli che l’accudivano come figli, giusto l’obbligo coranico, si diceva convinto che Arafat sperasse in cuor suo di chiudere con una pallottola in fronte, o incenerito da un missile, nell’antro precario in cui viveva, schiavo d’un giuoco delle parti tragicamente pirandelliano.

Insomma, Arafat doveva reclamare tutto perché così era scritto nel copione del destino suo e dei palestinesi. Abu Mazen, invece, può pretendere tutto per demagogia elettorale ma intimamente deve rassegnarsi alla realtà. Traghettare un popolo frustrato, sull’orlo del pauperismo, dal «nulla» al «possibile»: questo è il compito che tocca al fedayn in doppiopetto. Ragionevole compito, epperò gigantesco.

Ecco il problema: Abu Mazen chiede a Sharon di riaprire la Road Map per così consentirgli di spegnere i residui focolai dell’intifada armata da lui già definita «un funesto errore». Sharon però gli fa sapere che si può aprire la Road Map soltanto dopo ch’egli, Abu Mazen, avrà messo la mordacchia ai terroristi, agli universitari brigatisti ristabilendo l’ordine nei Territori con le buone o con le cattive. «Sono un ottimista immerso nel pessimismo», dice Abu Mazen festeggiando (senza fanfara) il suo successo, per altro gravido di incognite. Un antico proverbio semita afferma che «quando tutto sembra perduto ti rimane pur sempre il futuro». Ma nella Palestina occupata il futuro non è per domani. E nemmeno per dopodomani.

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