Da La Repubblica del 05/01/2005

Uno spiraglio di pace in Palestina

di Sandro Viola

GERUSALEMME - COM´ERA già accaduto tre o quattro volte nell´ultimo trentennio, sullo sfondo del conflitto israelopalestinese sembra di nuovo baluginare una luce di speranza. È vero, le altre volte ogni attesa aveva partorito soltanto nuove e sempre più sanguinose violenze. Ma resta che da qualche settimana i contendenti stanno parlando come se volessero davvero tornare al tavolo del negoziato. Ariel Sharon ammette infatti quel che la destra israeliana non aveva mai voluto ammettere, e cioè che nella terra di Eretz Israel non può esserci un solo Stato, quello degli ebrei, ma dovranno essercene due: l´ebraico e il palestinese.

Mentre sull´altro versante il successore di Arafat, Abu Mazen, riconosce che la Seconda intifada s´è risolta per i palestinesi in un disastro: quattro anni di lutti, miseria, devastazioni, e nessun vantaggio politico.

Sono parole, posizioni in cui s´intravvede la terribile stanchezza dei due popoli, e dalle quali si potrebbe muovere ancora una volta, forse, verso la ricerca d´un compromesso. E infatti a Gerusalemme circola un refolo d´ottimismo, lo stesso che vi trovai nell´aprile dell´anno scorso, i giorni in cui veniva varata la road map. Allora era già quasi caldo, adesso piove e fa freddo. Ma come allora l´atmosfera è più distesa, il tono dei discorsi è meno amaro e rassegnato. Il fatto è che il piano Sharon per il ritiro da Gaza e la morte di Arafat hanno mosso le acque dello stagno mediorientale: e questo mentre gli attentati terroristici diminuivano drasticamente, chi dice dell´80 e chi del 90 per cento. Così che su ambedue i versanti del conflitto (ma soprattutto sul versante israeliano) la gente, seppure con molta cautela, timorosa d´andare incontro a nuove delusioni, non può impedirsi di sperare.

Dire se queste speranze siano fondate o meno, è difficile: perché per prima cosa bisognerebbe stabilire se Ariel Sharon intenda davvero - quando sostiene che il 2005 sarà "l´anno della svolta" - imboccare la strada della riconciliazione, o se stia invece tessendo la trama d´un altro inganno. Tom Segev, uno dei più noti e brillanti tra i "nuovi storici" d´Israele, m´invita a diffidare. «Il ritiro da Gaza - spiega - serve a Sharon soltanto per gestire meglio questa fase del conflitto, e per resistere alle pressioni internazionali. Del resto Gaza è intenibile, bisogna uscirne: e lui, da buon militare, ha deciso il ripiegamento. Ma questo non è il primo passo sulla via della pace. È il primo e l´ultimo. Tutto il resto, il ritiro dalla Cisgiordania, Gerusalemme, il problema dei profughi palestinesi, dovrà aspettare ancora molti anni, venti o trenta, per essere affrontato e risolto».

Critico è anche un mio amico, lo scrittore Amos Elon: Sharon «non si ritira perché riconosce che Gaza appartiene ai palestinesi, ma perché l´occupazione è diventata troppo costosa. A Gaza ci sono un milione e 300mila disperati, come dire una polveriera pronta a esplodere, e Israele cerca di uscirne per evitare d´essere considerata responsabile dell´esplosione. Ma Gaza esploderà lo stesso, e la responsabilità sarà comunque israeliana».

Beninteso, i dubbi non sorgono soltanto quando si guarda alla politica israeliana. È anche della volontà di pace dei palestinesi, che non si può essere del tutto sicuri. Una decina di giorni fa si sono tenute le elezioni municipali, le prime da quasi trent´anni, in 26 cittadine e villaggi palestinesi della Cisgiordania. Il temuto grande successo di Hamas non c´è stato, ma il partito degli integralisti islamici, che rifiuta qualsiasi concessione ad Israele, dal quale sono usciti la maggior parte dei kamikaze, ha raccolto comunque un 20-25 per cento dei consensi. Non è poco: anzi è il segno di come sarà dura e probabilmente violenta, se davvero dovesse delinearsi un negoziato, l´opposizione degli integralisti alla leadership moderata del dopo-Arafat.

Ma se non s´insiste nel voler prevedere il futuro, se ci si limita ad esaminare i fatti come si presentano oggi, la conclusione è che qualche spiraglio si sta aprendo. Prendiamo il caso di Sharon. Che stia barando è possibile, visto che l´ha fatto tante volte. E tuttavia è innegabile che negli ultimi tempi s´è mosso lungo una linea che contraddice gran parte del suo passato politico. Ha lacerato il Likud, ha dissolto la coalizione con i partiti d´estrema destra, ha imbarcato i laburisti nel governo, ha resistito imperturbabile alle grandi manifestazioni, ai ricatti e alle minacce dello Yesha Council, il movimento dei coloni. Tutto questo soltanto per mascherare una trappola? Per prepararsi, dopo il ritiro da Gaza, a congelare la trattativa con i palestinesi?

La cosa certa è che i sondaggi mostrano come i due popoli siano in attesa, se non proprio della pace, almeno d´una tregua. Con Sharon - dunque contro i coloni e gli altri irriducibili dell´estrema destra - ci sono il 70 per cento almeno degli israeliani. Mentre il 55 per cento dei palestinesi si dice contrario ad altre azioni armate contro Israele. E non basta: fra poco più di dieci giorni si svolgeranno le elezioni per la presidenza dell´Autorità palestinese, e a vincerle sarà sicuramente Abu Mazen.

Certo, bisognerà vedere in quanti andranno a votare e con quale percentuale di consensi il moderato Abu Mazen s´insedierà al posto di Yasser Arafat. Ma intanto il suo impegno a contrastare gli incitamenti alla violenza ha già prodotto i primi risultati. Le prediche nelle moschee non hanno più il tono incendiario di qualche mese fa, e le radiotelevisioni palestinesi stanno parlando dopo molto tempo un linguaggio meno bellicoso, più misurato.

Finirà tutto, anche questa volta, in un´ennesima delusione? Avendo visto ridursi in cenere quattro o cinque piani di pace, non sarò io a dire che no, che stavolta il compromesso è possibile e tutto andrà quindi per il verso giusto. Da una parte e dall´altra gli estremisti sono certamente già al lavoro per sabotare qualsiasi progresso del dialogo.

Su ambedue i versanti, i traumi, i lutti e i veleni fondamentalisti spingeranno una parte delle due popolazioni a schierarsi con gli irriducibili invece che con i moderati. E l´apparente irrimediabilità del disastro iracheno rischia di sottrarre al governo degli Stati Uniti le energie necessarie a un´assidua, convinta mediazione in questo conflitto ormai secolare.

Dunque, niente facili ottimismi. Si può solo prendere atto che il quadro israelopalestinese è meno cupo, convulso e mortifero di com´era stato negli ultimi quattro anni. E che sono in molti, israeliani e palestinesi, a credere di vedere una luce in fondo al tunnel.

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