Da La Repubblica del 11/01/2005
E al Pentagono, sostiene il New York Times, si discuterebbe di un possibile ritiro anticipato
La Coalizione perde l´Ucraina
Con 1600 uomini era il sesto Paese per contributi militari
di Riccardo Staglianò
La Coalizione perde il pezzo ucraino. E nel mosaico sdentato dei Paesi che operano militarmente in Iraq i 1600 uomini di Kiev non erano una tessera da poco. Ma il presidente uscente Leonid Kuchma ha preso la sua decisione all´indomani della sciagura che è costata la vita a 8 suoi soldati e a un militare kazakho, dilaniati dall´esplosione di una bomba. Durante la campagna elettorale ucraina entrambi i candidati (Yushenko, che ha poi prevalso, e Yanukovich) avevano promesso il ritiro, ma le ultime perdite («un attacco pianificato» ha assicurato il generale Vladimir Mojarovsky) hanno dato la spinta che mancava. Se da marzo all´estate circa un quarto dei 36 membri originari si erano persi per strada (a cominciare da Spagna, Honduras, Nicaragua, Repubblica Dominicana) l´odierna defezione del sesto Paese per contributi militari, pur guidato dal filo-occidentale Viktor Yuschenko, apre un´ulteriore crepa nell´alleanza a guida anglo-americana.
Mai tanto profonda, tuttavia, quanto quella che il New York Times vede nell´architrave stessa della politica del Pentagono. Per la prima volta l´opzione tabù sarebbe stata discussa lungamente e presa in considerazione come uno dei possibili scenari post elezioni. «Qui abbiamo piani per qualsiasi cosa» minimizza un alto dirigente del ministero della Difesa, ma altre fonti raccontano una storia diversa. Che il mantenimento dei soldati in Iraq, ad esempio, costa 4,5 miliardi di dollari al mese per non dire del costo politico di un continuo stillicidio di vite umane che potrebbe erodere anche il robusto consenso che gli elettori hanno rinnovato al presidente Bush. Il quale, in pubblico almeno, continua a ripetere che la data del disimpegno la decideranno gli iracheni, una volta diventati autosufficienti nel provvedere alla loro sicurezza. Nessuno vuole dare date precise ma un altro intervistato circoscrive la previsione: «Deve diventare una partita gestita dagli iracheni, e deve avvenire entro quest´anno».
L´offensiva della guerriglia è sempre più sanguinosa, però. Ieri è stato assassinato il vice capo della polizia di Bagdad e sono stati compiuti due attentati contro altrettanti commissariati. Il premier Iyad Allawi non sembra vacillare e ribadisce che si voterà, come da copione, il 30 gennaio. E l´ambasciata Usa a Bagdad, contrariamente alle indiscrezioni del quotidiano newyorchese, avrebbe respinto una proposta del Comitato degli Ulema che prevedeva la partecipazione dei sunniti al voto in cambio della presentazione ufficiale di un calendario per il ritiro dei circa 150 mila soldati statunitensi.
Davanti al balletto delle notizie su se e quanto Washington si atterrà a piani previsti, sul fronte della sparizione della giornalista francese Florence Aubenas e del suo interprete Hussein Hanoun al Saadi, non si sa niente di nuovo. Un vuoto di informazioni che alimenta una preoccupazione - come scrive il suo giornale Libération - che «cresce sempre di più». «Non c´è alcuna certezza sulle ragioni della loro scomparsa» ha dovuto ammettere, impotente, anche il ministro degli esteri Michel Barnier.
Mai tanto profonda, tuttavia, quanto quella che il New York Times vede nell´architrave stessa della politica del Pentagono. Per la prima volta l´opzione tabù sarebbe stata discussa lungamente e presa in considerazione come uno dei possibili scenari post elezioni. «Qui abbiamo piani per qualsiasi cosa» minimizza un alto dirigente del ministero della Difesa, ma altre fonti raccontano una storia diversa. Che il mantenimento dei soldati in Iraq, ad esempio, costa 4,5 miliardi di dollari al mese per non dire del costo politico di un continuo stillicidio di vite umane che potrebbe erodere anche il robusto consenso che gli elettori hanno rinnovato al presidente Bush. Il quale, in pubblico almeno, continua a ripetere che la data del disimpegno la decideranno gli iracheni, una volta diventati autosufficienti nel provvedere alla loro sicurezza. Nessuno vuole dare date precise ma un altro intervistato circoscrive la previsione: «Deve diventare una partita gestita dagli iracheni, e deve avvenire entro quest´anno».
L´offensiva della guerriglia è sempre più sanguinosa, però. Ieri è stato assassinato il vice capo della polizia di Bagdad e sono stati compiuti due attentati contro altrettanti commissariati. Il premier Iyad Allawi non sembra vacillare e ribadisce che si voterà, come da copione, il 30 gennaio. E l´ambasciata Usa a Bagdad, contrariamente alle indiscrezioni del quotidiano newyorchese, avrebbe respinto una proposta del Comitato degli Ulema che prevedeva la partecipazione dei sunniti al voto in cambio della presentazione ufficiale di un calendario per il ritiro dei circa 150 mila soldati statunitensi.
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