Da Corriere della Sera del 12/01/2005

SHIMON PERES

«Israele, i palestinesi e la Giordania una troika collegata all’Europa»

di Paola Coppola, Antonio Ferrari

TEL AVIV - Ottimista ma senza illusioni. Vuole salvare il governo del suo alleato ed ex nemico Sharon ed evitare le elezioni anticipate, perché ritiene fondamentale il ritiro da Gaza: «Per la coalizione sarà quello il momento di massimo rischio». Ha fiducia in Abu Mazen e si rifiuta di essere scettico sulla sua capacità di fermare il terrorismo: «Decidere non è mai un piacere, ma ci proverà». Giudica il voto palestinese il più democratico che sia mai stato espresso nel mondo arabo.

Dopo 45 anni di politica e 81 di età, Shimon Peres ricomincia. Da ieri è l'uomo chiave del nuovo governo di unità nazionale che si è appena salvato da un problematico voto di fiducia e che si prepara a viverne un altro stasera sulla finanziaria. Ma le insidie non lo turbano: «Cosa volete, ho trascorso metà della mia vita politica nella maggioranza e l'altra metà all'opposizione. Ora mi sento sia l'una sia l'altra». Nel suo ufficio di Tel Aviv, circondato da giovani e belle collaboratrici, il leader laburista sembra un protagonista distaccato. Ma la politica è la sua vita e già alla prima domanda di quest'intervista al Corriere lo sguardo si accende, sprizzando volontà, curiosità e ironia. «Alla Knesset mi sembra d'essere tornato all'asilo».

Asilo che pare cronicamente instabile. Un premier di destra, abbandonato da metà del suo partito, sostenuto da una maggioranza di sinistra e costretto a ricorrere a voti prestati. Come fa a stare in piedi questa coalizione?
«Il problema non è la coalizione e neppure Sharon. E’ il suo partito, il Likud».

Non c’è il rischio di un collasso e di nuove elezioni?
«La pace vale molto più delle elezioni e poi non credo che il governo cadrà. Come? Ci sono altri possibili partner: i religiosi o i laici dello Shinui. Gli uni escludono gli altri».

Però vi sarà un pericolo permanente.
«Credo che Sharon riuscirà a evitare la spaccatura definitiva del suo partito».

Primo scenario da brividi. Comincia l'uscita da Gaza e i coloni si ribellano. Non teme una guerra civile?
«Episodi violenti sì, guerra vera no. Se usassero le armi, perderebbero anche il sostegno che hanno».

La sentiamo ottimista.
«Sento che il 2005 sarà un anno di grandi opportunità da non perdere. I palestinesi hanno offerto un’importante prova di democrazia. Domenica non si sono viste le armi, che invece vedremo durante le elezioni irachene. Abu Mazen è stato eletto con una solida maggioranza. Presto confermerà Abu Ala capo del governo. Sono due persone serie che conosco bene. Ho fiducia nella loro volontà di disarmare i terroristi».

Abu Mazen rifiuta la repressione e vuole trasformare gli estremisti di Hamas e altri gruppi in forze soltanto politiche. Pensa che possa riuscire in questo compito?
«Che lo voglia fare sono sicuro, che possa lo vedremo. Imporre legge e ordine costa molto ma è un dovere. Ho passato ore e ore a discutere con Arafat per convincerlo che doveva agire, come fece Ben Gurion per domare le varie fazioni alla nascita dello stato di Israele. Non mi ascoltò».

Ritiene che Arafat istigasse i terroristi?
«Non credo che li spingesse a compiere gli attentati, ma non dava l'ordine di fermarli».

Vede molti cambiamenti dopo la sua morte?
«In 60 giorni sono cambiate molte cose. Le elezioni si sono svolte in pace, senza incidenti, e la gente ha manifestato la volontà di esercitare un diritto».

Secondo scenario da brivido. Un gravissimo attentato contro Israele. Accusereste Abu Mazen?
«Dipenderà da ciò che avrà fatto per cercare di neutralizzare i terroristi».

I palestinesi dicono: vogliamo che il ritiro da Gaza diventi parte della Road Map, per vedere poi il ritiro dalla Cisgiordania. E’ d’accordo?
«Il passaggio non è automatico. Io, rispetto a Sharon, ho posizioni più avanzate ma il problema è agire, cominciare. Meglio un piano mediocre con una maggioranza, che un piano splendido senza maggioranza».

Ma lei crede sempre nella Road Map?
«La Road Map è una strada. Noi abbiamo bisogno di un veicolo per andare avanti.

Crede che Sharon salirà sul veicolo? E' così cambiato in questi ultimi anni?
«Sono le circostante che fanno cambiare gli uomini, non viceversa».

Chi ha più problemi, secondo lei, in questo momento: Sharon o Abu Mazen?
«I problemi di Sharon li conosciamo, quelli di Abu Mazen non ancora».

Alla conferenza di Londra del 1° marzo, si discuterà di riforme e di aiuti economici ai palestinesi, ma Israele non parteciperà.
«Quando si decise di non partecipare io non c'ero. Ero all'opposizione».

Che cosa può fare l'Europa?
«È stata molto utile nell’assistenza ai palestinesi per le elezioni. Ora li potrà aiutare stimolando le riforme. Modernizzare produce democrazia. Più che i sussidi finanziari servono strutture per costruire un’autonomia economica. Bisogna evitare che gli aiuti, spesso raccolti tra i poveri dei Paesi ricchi, finiscano ai ricchi dei Paesi poveri».

Continua a sognare un nuovo Medio Oriente?
«Sì e credo che sia necessario creare una troika, saldamente collegata all’Europa, fra Giordania, Autorità palestinese e Israele».

Presidente Peres, si è mai interrogato sui suoi errori? Nel '96, per esempio, poteva vincere le elezioni e le perse.
«Vincere, a volte, significa accettare un numero di compromessi tali che alla fine non ci si ricorda perché si è vinto».
Annotazioni − Ha collaborato Manuela Dviri Vitali Norsa.

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