Da Corriere della Sera del 12/01/2005
IL PRESIDENTE DELLA CORTE
Lo stop alla riforma contestata evocato nel saluto a Ciampi
di Giovanni Bianconi
ROMA - La riforma dell’ordinamento giudiziario non è divenuta legge per l’altolà imposto da Carlo Azeglio Ciampi, e così il procuratore generale della Cassazione si appresta a svolgere - probabilmente per l’ultima volta - la relazione annuale sull’amministrazione della giustizia. A precedere il discorso di Francesco Favara, però, è il primo presidente della Corte Nicola Marvulli, che sembra voler inaugurare un nuovo corso. Come mai era avvenuto in passato prende la parola per rivolgersi al capo dello dello Stato, seduto al centro della platea. «Non posso sottrarmi - dice Marvulli - al gradito dovere di manifestare a lei, signor presidente della Repubblica, la mia personale gratitudine e quella di tutta la Corte di Cassazione. La sua presenza suscita in noi un senso istintivo e convinto di profonda riconoscenza per la particolare e costante attenzione che ella dedica ai problemi della giustizia e per l’impareggiabile impegno con il quale difende l’autonomia e l’indipendenza della magistratura». Seguono altri ringraziamenti di rito, ma a nessuno sfugge l’importanza e il peso della novità. A parte i numerosi interventi pubblici di Ciampi sulla giustizia, proprio la mancata firma e conseguente restituzione al Parlamento della legge sull’ordinamento votata dalla maggioranza di centro-destra è troppo recente per non rappresentare l’ultimo atto dell’«impareggiabile impegno» evocato da Marvulli. Il primo presidente ricorda anche il «delicato momento di transizione» che vive la giustizia in Italia, e non può che riferirsi a quella riforma e forse ad altre parimenti contestate.
Dopo Marvulli, Favara esordisce condividendo «il tono e il significato intimo del saluto al presidente della Repubblica». Un fuori testo che sembra andare al di là della rituale deferenza dovuta al capo dello Stato. Anche perché il pg indica in questa condivisione una «unità di intenti» nei vertici della Cassazione che pure si presta a una lettura interna alle dispute degli ultimi mesi: al di là di tutti i discorsi su separazioni di carriere, funzioni e quant’altro, sulle questioni di fondo il più alto rappresentante della magistratura inquirente e il primo rappresentante della magistratura giudicante la vedono allo stesso modo. E finalmente la relazione può cominciare.
Nell’anno giudiziario illustrato da Favara ci sono stati ben due scioperi dei magistrati contro la riforma voluta dal governo Berlusconi, bollata come «controriforma» dei giudici e non della giustizia; nel senso che si occupa di ridisegnare figure e culture dei magistrati, non delle regole che devono applicare. Invece sono proprio quelle regole - accusa il pg - che rendono inefficace il sistema e quindi un cattivo servizio ai cittadini. A cominciare dalla «eccessiva durata dei processi», un leit motiv che si ripete ogni anno. Favara, come Marvulli membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura, ha espresso la sua valutazione sulla riforma che contrappone il mondo della giustizia a quello della politica votando (come Marvulli) il parere dell’organo di autogoverno. Parere nettamente negativo e gravido di accuse di incostituzionalità. Ma nella cerimonia solenne il pg evita di entrare nel merito della riforma. Dice che è «necessaria, a prescindere da ogni valutazione sul suo contenuto», ma avverte che «da sola, non è assolutamente sufficiente» a guarire la giustizia malata.
Su un punto, però, il pg decide di affrontarne i contenuti. Quello in cui rende obbligatorio l’esercizio dell’azione disciplinare contro i magistrati affidato al suo ufficio, innescando un carico di lavoro che Favara prevede insostenibile e inutile. Per questo auspica che le Camere, invitate da Ciampi a rivedere altri quattro articoli della legge, riesaminino anche questo, allo scopo di dare «serenità a chi è chiamato al difficile compito di amministrare la giustizia». In un clima sempre acceso dalle dispute sui pronunciamenti dei giudici, Favara rinnova l’appello al «rispetto per le sentenze che, come più in generale le attività dell’autorità giudiziaria, possono certamente essere criticate, ma non contestate o strumentalizzate per fini diversi». E sente di dover ripetere che «dev’essere sempre rispettata» l’autonomia e l’indipendenza di tutti i magistrati, sia giudici che pubblici ministeri. «Come ha più volte ribadito - ricorda - il capo dello Stato».
Dopo Marvulli, Favara esordisce condividendo «il tono e il significato intimo del saluto al presidente della Repubblica». Un fuori testo che sembra andare al di là della rituale deferenza dovuta al capo dello Stato. Anche perché il pg indica in questa condivisione una «unità di intenti» nei vertici della Cassazione che pure si presta a una lettura interna alle dispute degli ultimi mesi: al di là di tutti i discorsi su separazioni di carriere, funzioni e quant’altro, sulle questioni di fondo il più alto rappresentante della magistratura inquirente e il primo rappresentante della magistratura giudicante la vedono allo stesso modo. E finalmente la relazione può cominciare.
Nell’anno giudiziario illustrato da Favara ci sono stati ben due scioperi dei magistrati contro la riforma voluta dal governo Berlusconi, bollata come «controriforma» dei giudici e non della giustizia; nel senso che si occupa di ridisegnare figure e culture dei magistrati, non delle regole che devono applicare. Invece sono proprio quelle regole - accusa il pg - che rendono inefficace il sistema e quindi un cattivo servizio ai cittadini. A cominciare dalla «eccessiva durata dei processi», un leit motiv che si ripete ogni anno. Favara, come Marvulli membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura, ha espresso la sua valutazione sulla riforma che contrappone il mondo della giustizia a quello della politica votando (come Marvulli) il parere dell’organo di autogoverno. Parere nettamente negativo e gravido di accuse di incostituzionalità. Ma nella cerimonia solenne il pg evita di entrare nel merito della riforma. Dice che è «necessaria, a prescindere da ogni valutazione sul suo contenuto», ma avverte che «da sola, non è assolutamente sufficiente» a guarire la giustizia malata.
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