Da Corriere della Sera del 21/01/2005

Un programma all’ombra della crisi irachena

Il vangelo del presidente

di Sergio Romano

Le democrazie, anche le più antiche e mature, sono volubili. Due mesi e mezzo fa George W. Bush ha battuto il suo avversario con un buon margine di voti. Oggi, mentre inizia il suo secondo mandato e assapora il piacere della vittoria, l’opinione pubblica del suo Paese considera alcuni aspetti della sua politica con preoccupazione. Una buona parte della società americana (fra cui certamente molti che hanno votato per lui agli inizi di novembre) non crede che l’amministrazione sappia come uscire dall’imbroglio iracheno, vede con molti timori la privatizzazione del sistema previdenziale e teme che esso peggiori ulteriormente lo stato dei conti pubblici. Un brusco cambiamento di opinione? Solo in parte. Bush è stato eletto da un blocco sociale composto da nazionalisti e tradizionalisti religiosi che diffidavano di John Kerry. Fra un candidato democratico che si è pronunciato sulla guerra con molte ambiguità e un presidente che ha dimostrato fermezza, hanno scelto il secondo. Fra un candidato che dava, sui problemi della famiglia e dei rapporti sessuali, risposte tendenzialmente liberal , e un presidente che non teme di invocare il nome di Dio, hanno scelto il secondo. Ma la situazione, ora, è diversa. Accantonata la prospettiva della presidenza Kerry, i problemi all’ordine del giorno sono altri: l’Iraq, le riforme della sicurezza sociale, del sistema scolastico, della sanità, il deficit, il debito estero. Mentre il primo mandato è stato dominato dal terrorismo, dalla guerra irachena e dalla riduzione delle imposte, il secondo, nelle intenzioni del presidente, dovrebbe essere dedicato a una drastica riduzione della presenza statale in alcuni settori della vita sociale. È inevitabile che gli schieramenti nati per le elezioni presidenziali si dissolvano e lascino il posto a un quadro in cui ogni americano giudica le politiche di Bush secondo altri criteri e interessi.

Su questa nuova situazione incombe la crisi irachena. Bush ha attenuato i toni unilateralisti della sua politica e farà in Europa il suo primo viaggio all’estero. Non va a Canossa, ma è certamente molto diverso dal presidente sprezzante che voltò le spalle all’Onu, lasciò trapelare la sua irritazione per la Francia e la Germania, rifiutò di rispondere a una telefonata del Premier spagnolo. Gli avvenimenti, gli ultimi consigli di Colin Powell e quelli di Tony Blair lo hanno probabilmente persuaso che era tempo di cambiare stile. Con il temperamento di un grande giocatore d’azzardo, tuttavia, ha deciso di scommettere sulla creazione di un Iraq democratico e ha rifiutato di rinviare la data delle elezioni. La scommessa è fondata su due premesse: la guerra è stata vinta e i riti della democrazia avranno una prodigiosa efficacia terapeutica. Delle due premesse la prima è purtroppo sbagliata. L’America ha vinto una guerra convenzionale contro l’esercito di Saddam Hussein, ma ne sta combattendo un’altra di tipo nuovo contro una pluralità di nemici che si servono di armi non convenzionali. Il numero delle vittime americane è fortunatamente contenuto. Ma il fatto che le forze degli Stati Uniti non riescano a proteggere i loro collaboratori iracheni è già, di per sé, una sconfitta.

Resta l’efficacia terapeutica del vangelo democratico cui Bush ha dedicato un discorso inaugurale dai toni fortemente missionari. Se i fatti gli daranno ragione, Bush potrà preparare l’uscita dall’Iraq e dedicarsi alla creazione di quella che ha definito ancora una volta «la società della proprietà». Se gli daranno torto, il secondo mandato sarà dominato, come all’epoca del Vietnam, da una guerra senza sbocchi in un Paese lontano e dal crescente malumore dell’opinione pubblica americana.

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