Da Corriere della Sera del 21/01/2005
Bush giura: «Porteremo la libertà ovunque»
Il presidente: «Finché domina la tirannia, l’odio si moltiplicherà». Cheney: «Iran primo problema»
di Ennio Caretto
WASHINGTON - Dalla terrazza del Campidoglio, tra canzoni patriottiche e sventolii di bandiere, durante la cerimonia di giuramento per il suo secondo mandato, George Bush ha ieri rivolto ai popoli oppressi, agli alleati e ai cittadini americani «la sfida della libertà». In un aggressivo discorso di 16 minuti, in cui si è appellato spesso a Dio, citando persino il Corano, il presidente ha addossato alla Superpotenza, all'Europa e «ai movimenti democratici» nelle aree di crisi il compito di porre fine a tutte le tirannie «anche negli angoli più oscuri della terra». Un compito, ha reso chiaro, che va al di là della lotta al terrorismo - «il mio obbligo primario rimane proteggere l'America» - e che investirà numerose generazioni, come per la guerra fredda. Bush ha promesso di curare le ferite e le divisioni causate dal primo mandato nelle alleanze e in America. Ma con una frase che ha ricordato il monito di Kennedy, «chiedetevi che cosa potere fare per la nazione», ha insistito che la storia porrà loro due interrogativi: «Abbiamo fatto avanzare la causa della libertà? La nostra condotta le ha reso onore?».
Il presidente ha preso la parola a mezzogiorno, le 18 ore italiane, in una capitale deserta e innevata, blindata contro gli attentati, tra saltuarie dimostrazioni pacifiste («Manda in Iraq le tue gemelle!», gridava un cartello), con alle spalle i suoi predecessori Carter, Bush padre e Clinton, la first lady Laura, elegante in un cappotto bianco, e l'ex rivale democratico John Kerry. Ha enunciato la futura «dottrina Bush», anticipata martedì dalla denuncia degli «avamposti della tirannia» da parte del nuovo segretario di Stato Condoleezza Rice. «Per mezzo secolo abbiamo difeso la libertà su confini distanti - ha detto - e dopo la caduta del comunismo abbiamo avuto un lungo sabbatico. Ma finché la tirannia dominerà intere regioni prone alla ideologia dell'odio, la violenza si moltiplicherà, diverrà una minaccia mortale». Un'unica forza, ha continuato, la potrà sconfiggere, la forza della libertà: «Nessuno ha il diritto di essere il padrone, nessuno merita la schiavitù: anche per la nostra sicurezza, noi dobbiamo diffondere la democrazia in ogni nazione e ogni cultura».
Quasi ad attenuare la sua sfida, Bush ha sottolineato che questo obiettivo «non è affidato all'uso delle armi, sebbene le impiegheremo se necessario» e che «l'America non vuole imporre il suo stile di governo». Ma ha ammonito che «la sopravvivenza della nostra libertà dipenderà dalla diffusione della libertà altrove», e che la Superpotenza «ha un dovere difficile da compiere ma sarebbe disonorevole abbandonarlo». Parole simili a quelle pronunciate dal suo vicepresidente, Dick Cheney, in un’intervista radiofonica, nominando espressamente l'Iran, «in cima alla lista dei luoghi del mondo che rappresentano potenziali problemi». Teheran, ha proseguito Cheney, sta perseguendo «un programma nucleare assai robusto» e ha una lunga storia di collaborazione con il terrorismo. Ma Cheney ha confermato che Washington preferisce affrontare il problema iraniano con la diplomazia e non con le armi.
Bush, senza nominare l'Iran, l'Iraq o la Palestina, ha invece assicurato i popoli oppressi che «quando lotterete per la democrazia lotteremo con voi». Quindi, rivolto all'Europa, a cui non ha concesso alcunché: «L'America è vostra amica, chiede il vostro consiglio, ha bisogno del vostro aiuto. Dividerci è lo scopo primario del nemico, ma un nostro sforzo concertato lo sconfiggerà». La difficoltà della nostra missione, ha concluso Bush, «non è un motivo sufficiente per evitarla».
Bush, che ha così confermato di ritenersi un «presidente di guerra», non ha fissato solo il programma di politica estera del secondo mandato, ma anche di politica interna. Si è richiamato all'unità dimostrata dall'America di fronte alle rovine delle Torri gemelle di Manhattan, ha ricordato «il supremo sacrificio» dei caduti in Afghanistan e in Iraq, ha esortato i giovani «a leggere l'idealismo nei loro occhi» e - ritornando ai temi kennediani - «a servire cause più grandi di voi». Il presidente ha evocato una «società di proprietari che garantisca non la sopravvivenza ma la dignità e la prosperità personali» da realizzare tramite le riforme del fisco, del sistema pensionistico e di quello sanitario all'insegna della privatizzazione. Ha insistito sui valori tradizionali e ha ripetuto 40 volte la parola libertà.
Il discorso ha confermato che George W. si sente investito dalla storia di una missione analoga a quella di Roosevelt e Churchill, che eliminarono il nazismo: quella di rovesciare i regimi antidemocratici. Non a caso, il presidente ne ha imitato i toni in alcuni passaggi. Ma come ha obiettato sul sito del Washington Post il vicedirettore Robert Kaiser, questo obbligo morale è stato sinora da lui interpretato in modo selettivo: nella lotta al terrorismo, Bush si è alleato a vari regimi repressivi, dal Pakistan all'Arabia Saudita, dal Kazakistan all'Uzbekistan, senza premere recisamente per la loro democratizzazione. Bisognerà vedere nei prossimi quattro anni, come ha ribattuto la tv Fox , che lo spalleggia, se cambierà politica nei loro confronti, o se ieri abbia sfidato anche loro.
Il presidente ha preso la parola a mezzogiorno, le 18 ore italiane, in una capitale deserta e innevata, blindata contro gli attentati, tra saltuarie dimostrazioni pacifiste («Manda in Iraq le tue gemelle!», gridava un cartello), con alle spalle i suoi predecessori Carter, Bush padre e Clinton, la first lady Laura, elegante in un cappotto bianco, e l'ex rivale democratico John Kerry. Ha enunciato la futura «dottrina Bush», anticipata martedì dalla denuncia degli «avamposti della tirannia» da parte del nuovo segretario di Stato Condoleezza Rice. «Per mezzo secolo abbiamo difeso la libertà su confini distanti - ha detto - e dopo la caduta del comunismo abbiamo avuto un lungo sabbatico. Ma finché la tirannia dominerà intere regioni prone alla ideologia dell'odio, la violenza si moltiplicherà, diverrà una minaccia mortale». Un'unica forza, ha continuato, la potrà sconfiggere, la forza della libertà: «Nessuno ha il diritto di essere il padrone, nessuno merita la schiavitù: anche per la nostra sicurezza, noi dobbiamo diffondere la democrazia in ogni nazione e ogni cultura».
Quasi ad attenuare la sua sfida, Bush ha sottolineato che questo obiettivo «non è affidato all'uso delle armi, sebbene le impiegheremo se necessario» e che «l'America non vuole imporre il suo stile di governo». Ma ha ammonito che «la sopravvivenza della nostra libertà dipenderà dalla diffusione della libertà altrove», e che la Superpotenza «ha un dovere difficile da compiere ma sarebbe disonorevole abbandonarlo». Parole simili a quelle pronunciate dal suo vicepresidente, Dick Cheney, in un’intervista radiofonica, nominando espressamente l'Iran, «in cima alla lista dei luoghi del mondo che rappresentano potenziali problemi». Teheran, ha proseguito Cheney, sta perseguendo «un programma nucleare assai robusto» e ha una lunga storia di collaborazione con il terrorismo. Ma Cheney ha confermato che Washington preferisce affrontare il problema iraniano con la diplomazia e non con le armi.
Bush, senza nominare l'Iran, l'Iraq o la Palestina, ha invece assicurato i popoli oppressi che «quando lotterete per la democrazia lotteremo con voi». Quindi, rivolto all'Europa, a cui non ha concesso alcunché: «L'America è vostra amica, chiede il vostro consiglio, ha bisogno del vostro aiuto. Dividerci è lo scopo primario del nemico, ma un nostro sforzo concertato lo sconfiggerà». La difficoltà della nostra missione, ha concluso Bush, «non è un motivo sufficiente per evitarla».
Bush, che ha così confermato di ritenersi un «presidente di guerra», non ha fissato solo il programma di politica estera del secondo mandato, ma anche di politica interna. Si è richiamato all'unità dimostrata dall'America di fronte alle rovine delle Torri gemelle di Manhattan, ha ricordato «il supremo sacrificio» dei caduti in Afghanistan e in Iraq, ha esortato i giovani «a leggere l'idealismo nei loro occhi» e - ritornando ai temi kennediani - «a servire cause più grandi di voi». Il presidente ha evocato una «società di proprietari che garantisca non la sopravvivenza ma la dignità e la prosperità personali» da realizzare tramite le riforme del fisco, del sistema pensionistico e di quello sanitario all'insegna della privatizzazione. Ha insistito sui valori tradizionali e ha ripetuto 40 volte la parola libertà.
Il discorso ha confermato che George W. si sente investito dalla storia di una missione analoga a quella di Roosevelt e Churchill, che eliminarono il nazismo: quella di rovesciare i regimi antidemocratici. Non a caso, il presidente ne ha imitato i toni in alcuni passaggi. Ma come ha obiettato sul sito del Washington Post il vicedirettore Robert Kaiser, questo obbligo morale è stato sinora da lui interpretato in modo selettivo: nella lotta al terrorismo, Bush si è alleato a vari regimi repressivi, dal Pakistan all'Arabia Saudita, dal Kazakistan all'Uzbekistan, senza premere recisamente per la loro democratizzazione. Bisognerà vedere nei prossimi quattro anni, come ha ribattuto la tv Fox , che lo spalleggia, se cambierà politica nei loro confronti, o se ieri abbia sfidato anche loro.
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