Da La Repubblica del 22/01/2005
L´accordo politico raggiunto solo per la costruzione di una rete di monitoraggio antitsunami nell´oceano indiano
Catastrofi, fallisce il summit di Kobe
Nessun piano decennale per la prevenzione, veto Usa sul clima
La protesta dei Caraibi: scarsa attenzione verso i "loro" disastri, come siccità e uragani
di Antonio Cianciullo
KOBE - La conferenza Onu sulla riduzione dei disastri è sostanzialmente fallita con 24 ore di anticipo sulla conclusione formale. Oggi, secondo il rito obbligato, si approverà all´unanimità il documento finale e si ripeterà quello che era stato già annunciato da giorni: la costruzione di una rete di monitoraggio anti-tsunami nell´oceano indiano. Ma, a meno di un miracolo dell´ultima ora, nel testo finale non ci sarà niente di concreto. Il piano d´azione che avrebbe dovuto impostare a tutto campo la prevenzione per i prossimi dieci anni è un documento fumoso, di belle parole e di scarsa utilità: nessun riferimento a fondi precisi, scadenze, procedure.
L´insuccesso di una conferenza a cui il mondo intero, dopo lo shock del disastro di Santo Stefano, guardava con speranza ha varie motivazioni. La prima è il veto americano a un piano d´azione in cui si faccia riferimento ai cambiamenti climatici. La nuova presidenza Bush continua l´affondo contro il protocollo di Kyoto e contro una politica globale di prevenzione di uno dei più gravi disastri ipotizzabili: l´incremento dell´effetto serra provocato dall´uso del petrolio e dalla deforestazione. A molti dei delegati che a Kobe rappresentano 150 paesi è sembrato improponibile delineare uno scenario di difesa dalle catastrofi future senza citare la possibilità che disastri dello stesso ordine di grandezza di quello che ha messo in ginocchio l´Asia diventino sempre più frequenti in un mondo sconvolto dai cambiamenti climatici. Il no dei "clima scettici" (Usa, Canada e Australia), la volontà di confinare possibili disastri futuri nella rassicurante cornice degli eventi naturali e inevitabili, hanno svuotato il piano d´azione decennale.
Il secondo elemento di crisi è stato il malumore di un gruppo di paesi guidati dagli stati caraibici, che hanno visto tutta l´attenzione convergere sulla prevenzione di una catastrofe terribile ma poco frequente come lo tsunami, mentre la loro vita quotidiana è sempre più frequentemente sconvolta da "tsunami silenziosi" di cui pochi si occupano: la siccità, le carestie, gli uragani che aumentano di numero e di intensità. Questi paesi vogliono che gli interventi di prevenzione riguardino tutti gli eventi estremi, anche quelli, come gli uragani, che appaiono più strettamente intrecciati al cambiamento climatico.
Il terzo fattore che ha portato la conferenza allo stallo è la differenza tra l´impostazione che era stata data all´appuntamento e il carico di attese che gli è piovuto addosso, dopo la sciagura che è costata la vita ad almeno 226 mila persone. «Io non mi sento delusa perché non avevo aspettative, speriamo che il dopo conferenza sia meno burocratico e ci siano più fatti, non solo parole», ha commentato Emma Bonino, coordinatrice del comitato per il controllo dei fondi per lo tsunami.
Comunque, al di là delle modeste conclusioni politiche, c´è da registrare l´inizio di un processo di monitoraggio globale delle catastrofi che partirà con la rete di rilevamento anti-tsunami nell´oceano indiano per la quale è in atto una competizione tecnologica tra il modello proposto dalla Germania e quello giapponese. Secondo l´Unesco potrebbe essere installata entro un anno. Ma senza un´adeguata informazione alle popolazioni che potrebbero venire coinvolte dall´allarme, e senza la messa in comune dei dati raccolti localmente, il sistema rischia di girare a vuoto. Oltre all´accordo tecnologico serve un accordo politico.
L´insuccesso di una conferenza a cui il mondo intero, dopo lo shock del disastro di Santo Stefano, guardava con speranza ha varie motivazioni. La prima è il veto americano a un piano d´azione in cui si faccia riferimento ai cambiamenti climatici. La nuova presidenza Bush continua l´affondo contro il protocollo di Kyoto e contro una politica globale di prevenzione di uno dei più gravi disastri ipotizzabili: l´incremento dell´effetto serra provocato dall´uso del petrolio e dalla deforestazione. A molti dei delegati che a Kobe rappresentano 150 paesi è sembrato improponibile delineare uno scenario di difesa dalle catastrofi future senza citare la possibilità che disastri dello stesso ordine di grandezza di quello che ha messo in ginocchio l´Asia diventino sempre più frequenti in un mondo sconvolto dai cambiamenti climatici. Il no dei "clima scettici" (Usa, Canada e Australia), la volontà di confinare possibili disastri futuri nella rassicurante cornice degli eventi naturali e inevitabili, hanno svuotato il piano d´azione decennale.
Il secondo elemento di crisi è stato il malumore di un gruppo di paesi guidati dagli stati caraibici, che hanno visto tutta l´attenzione convergere sulla prevenzione di una catastrofe terribile ma poco frequente come lo tsunami, mentre la loro vita quotidiana è sempre più frequentemente sconvolta da "tsunami silenziosi" di cui pochi si occupano: la siccità, le carestie, gli uragani che aumentano di numero e di intensità. Questi paesi vogliono che gli interventi di prevenzione riguardino tutti gli eventi estremi, anche quelli, come gli uragani, che appaiono più strettamente intrecciati al cambiamento climatico.
Il terzo fattore che ha portato la conferenza allo stallo è la differenza tra l´impostazione che era stata data all´appuntamento e il carico di attese che gli è piovuto addosso, dopo la sciagura che è costata la vita ad almeno 226 mila persone. «Io non mi sento delusa perché non avevo aspettative, speriamo che il dopo conferenza sia meno burocratico e ci siano più fatti, non solo parole», ha commentato Emma Bonino, coordinatrice del comitato per il controllo dei fondi per lo tsunami.
Comunque, al di là delle modeste conclusioni politiche, c´è da registrare l´inizio di un processo di monitoraggio globale delle catastrofi che partirà con la rete di rilevamento anti-tsunami nell´oceano indiano per la quale è in atto una competizione tecnologica tra il modello proposto dalla Germania e quello giapponese. Secondo l´Unesco potrebbe essere installata entro un anno. Ma senza un´adeguata informazione alle popolazioni che potrebbero venire coinvolte dall´allarme, e senza la messa in comune dei dati raccolti localmente, il sistema rischia di girare a vuoto. Oltre all´accordo tecnologico serve un accordo politico.
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