Da Corriere della Sera del 25/01/2005

Arabia, prime oasi di non violenza

di Magdi Allam

L’Arabia Saudita sembra impegnata in una gara contro il tempo per non fare una fine forse ancora peggiore dell’Iraq. Chi avrebbe pensato che il Paese che ha partorito Osama Bin Laden e ben 15 dei 19 dirottatori-kamikaze dell'11 settembre, avrebbe assunto oggi l'iniziativa di convocare per il 5 febbraio a Riad un vertice internazionale contro il terrorismo? E che parallelamente avrebbe indetto un vertice dei leader islamici alla Mecca per concordare «un'azione comune per la riforma e l'unità della Umma», ossia la nazione islamica?

Parimenti sorprende il fatto che dietro alla svolta, che non è solo politica ma anche ideologica, c'è il principe ereditario Abdallah. Lo chiamavano il «Principe rosso» per una sua parentela con il clan Assad che domina in Siria e per il suo acceso nazionalismo arabo. Si era messo in luce per la sua strenua opposizione alla presenza delle forze americane sulla più sacra delle terre dell'Islam e per l'intervento militare multinazionale che liberò il Kuwait occupato da Saddam Hussein nel 1990. Al punto da conquistarsi la stima e la simpatia di bin Laden che si asteneva dall'attaccarlo nei focosi discorsi contro la famiglia reale saudita. Tant'è che dopo l'11 settembre 2001 il nome di Abdallah figurò tra i principali indiziati di connivenza con la più pericolosa rete del terrorismo islamico globalizzato. Ed è stato sempre lui a decidere e gestire il disimpegno di gran parte delle forze militari americane dall'Arabia Saudita. Fino a non celare la propria contrarietà alla recente guerra in Iraq decisa da Bush.

E che parallelamente avrebbe indetto un vertice dei leader islamici alla Mecca per concordare «un'azione comune per la riforma e l'unità della Umma», ossia la nazione islamica? Parimenti sorprende il fatto che dietro alla svolta, che non è solo politica ma anche ideologica, c'è il principe ereditario Abdallah. Lo chiamavano il «Principe rosso» per una sua parentela con il clan Assad che domina in Siria e per il suo acceso nazionalismo arabo. Si era messo in luce per la sua strenua opposizione alla presenza delle forze americane sulla più sacra delle terre dell'Islam e per l'intervento militare multinazionale che liberò il Kuwait occupato da Saddam Hussein nel 1990. Al punto da conquistarsi la stima e la simpatia di bin Laden che si asteneva dall'attaccarlo nei focosi discorsi contro la famiglia reale saudita. Tant'è che dopo l'11 settembre 2001 il nome di Abdallah figurò tra i principali indiziati di connivenza con la più pericolosa rete del terrorismo islamico globalizzato. Ed è stato sempre lui a decidere e gestire il disimpegno di gran parte delle forze militari americane dall'Arabia Saudita. Fino a non celare la propria contrarietà alla recente guerra in Iraq decisa da Bush.

Eppure oggi è Abdallah in prima fila, al fianco del più malconcio re Fahd che si fregia del titolo religioso di «servitore delle due sacre moschee della Mecca e Medina», a traghettare la difficilissima transizione della prima teocrazia islamica dell'era moderna a uno Stato di diritto. Quest'anno, per la prima volta nella loro storia, i sudditi sauditi maschi andranno a votare per le elezioni municipali. Ben poca cosa rispetto allo standard occidentale della democrazia. Un passo significativo per un regime che tuttora non ha una Costituzione perché «tutto sta scritto nel Corano».

Ebbene la svolta ideologica la si coglie nella scoperta, da parte della propaganda ufficiale e dei mass media pubblici, del valore della «sacralità della patria». Lo stesso Abdallah ha appena firmato un decreto che dedica alcune delle principali strade delle città saudite ai «martiri della religione e della patria», ossia ai poliziotti e ai soldati uccisi dai terroristi islamici negli ultimi due anni. A tutti i livelli, compresi i predicatori delle moschee più in vista, si reitera la condanna di eresia contro la «setta deviazionista», cioè bin Laden e i suoi discepoli. Mentre gli intellettuali sauditi danno libero sfogo alla condanna del «pensiero monolitico», propugnano un Islam «razionale» e «illuminato».

Addirittura Turki al Hamad, in un commento sul quotidiano Asharq al Awsat , invoca l'esempio pacifista di Gandhi: «Coloro che scandiscono lo slogan delle riforme utilizzando la violenza e la distruzione, alla fine nuocciono a tutti e si vendicano di tutti. Sì, è vero, le riforme in Arabia Saudita sono inoppugnabili e una scelta strategica irrinunciabile. Ma le riforme non verranno con la violenza, lo spargimento di sangue e l'abbattimento dell'entità politica. Il malato può essere curato e tornare sano, ma il morto non può tornare alla vita». Questa la sua conclusione: «Oggi la priorità deve essere quella di estirpare l'ideologia che avvelena le menti e legittima la violenza e il terrorismo. Prima di tutto salviamo l'entità nazionale e al suo interno confrontiamoci liberamente».

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