Da Il Messaggero del 13/11/2003

Una trappola creata per gli sciiti

di Marcella Emiliani

ANCHE i nostri carabinieri sono finiti nel mirino dell'odio terrorista a Nassiriya e il bilancio delle vittime è spaventoso. Con lo stillicidio quotidiano di morti americani, un po' per cinismo, un po' per scaramanzia ci eravamo illusi che a noi non toccasse. «Italiani brava gente» sulle rive del Tigri e dell'Eufrate non ha funzionato. Anche i nostri contingenti militari, impegnati soprattutto in azioni umanitarie, dopo l'attentato di ieri vengono considerati a tutti gli effetti degli "occupanti" come i marines o i soldati inglesi e polacchi. Il messaggio è chiaro: chiunque dia manforte agli Stati Uniti a ricostruire l'Iraq è un bersaglio, come l'Onu del resto, o come la Croce rossa che di ultimo hanno ridotto i loro effettivi sul campo. E la cosa più disperante è non sapere mai da dove viene la minaccia, chi firma davvero gli attentati, chi li coordina, se li coordina.

Il dato inquietante nell'attacco contro i nostri carabinieri è che a Nassiriya si è aperto un altro fronte, in un'area che fino a questo momento era stata parzialmente risparmiata dal furore terrorista contro gli occidentali. Nel mirino erano finiti eminenti ayatollah disposti al dialogo col Governo provvisorio messo in piedi dal proconsole americano Bremer. «Gli sciiti sono relativamente calmi si continuava a ripetere e gli sciiti sono la comunità più numerosa dell'Iraq». «La grande instabilità è concentrata nell'area sunnita si diceva perché i sunniti hanno tutto da perdere e Saddam Hussein è ancora vivo e vegeto».

La realtà è che tutto l'Iraq è divenuto un campo di battaglia e la catena impressionante di attentati, che infierisce in maniera ancor più crudele proprio dall'inizio del Ramadan, periodo sacro per l'Islam, fa passare sotto silenzio i progressi che pure si stanno facendo con la progressiva riattivazione dei servizi più elementari, dalle forniture idriche all'elettricità, dall'assistenza sanitaria all'istruzione, alla circolazione delle merci. In Iraq, oggi, qualcuno ha tutto l'interesse che il paese precipiti nel caos più totale, che la ricostruzione non decolli per niente, e non è affatto da escludere che colpire gli occidentali gli italiani in questo caso sia parte di una strategia volta a far precipitare gli eventi sul terreno anche là dove le autorità locali fino ad oggi erano riuscite a tenere la situazione sotto controllo come nel Sud sciita. Detto in altre parole, potrebbero essere stati colpiti i nostri militari per trascinare nella spirale attentati-guerriglia proprio la popolazione sciita. Come metteva in guardia un rapporto della Cia di pochi giorni fa, agli "irriducibili" della prima ora contro la presenza americana in Iraq (i feddayin di Saddam e schegge dei suoi tanti servizi segreti) si starebbero aggregando terroristi "di mestiere" (alla Al Qaeda per intenderci), giovani sciamannati provenienti dai paesi arabo-musulmani e soprattutto sempre più iracheni.

Iracheni esasperati proprio dal degrado della situazione, da una normalizzazione che non arriva mai e che fa addirittura rimpiangere "le certezze" della tristissima era Saddam. E quello che vogliono gli attentatori è proprio togliere ogni speranza, instillare nella popolazione la percezione che, finché gli occidentali rimarranno in Iraq, la situazione non farà che peggiorare. Da questo punto di vista non fa nessuna differenza colpire un americano o un italiano. Ma un ultimo dubbio rimane e allora chiediamoci se l'attentato di Nassiriya possa essere collegato alla distensione dei rapporti tra l'Italia e Israele, con la visita del vice-primo ministro Fini a Gerusalemme e l'arrivo a Roma del premier Sharon.

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