Da Il Manifesto del 18/11/2003

Michael Walzer

La ragione armata di una guerra

Doppio fronte «ERO CONTRO l'intervento militare in Iraq. Ma una volta iniziata, è meglio che la guerra finisca al più presto». Un'intervista con il filosofo della politica, direttore della rivista «Dissent», che rappresenta al meglio le posizioni della sinistra «liberal» statunitense che non vuole il ritiro delle truppe perché faciliterebbe l'avvento degli integralisti

di Marco D'Eramo

PRINCETON - All'improvviso la pioggia cade a dirotto mentre il taxi mi porta dalla stazione ferroviaria (un'ora e venti di treno da New York) all'Institute of Advanced Study, dove insegnò Albert Einstein. Il tergicristallo non fa a tempo a spazzare le cascate d'acqua, quando superiamo inzuppati joggers colti di sorpresa dal piovasco, sotto gli alberi maestosi, in mezzo a sterminati prati tra cui sorgono isolati gli edifici di una delle più prestigiose, e più care, università al mondo. Ancora una volta Michael Walzer mi ha dato appuntamento alle tre e mezza del pomeriggio, ora del tè per i membri dell'istituto, nella sala con poltrone e tappeti che, attraverso grandi porte finestre, si apre sul parco curatissimo. Ci sediamo nel suo ufficio dove è succeduto in cattedra al grande Albert Hirschman (quello di Lealtà, defezione, protesta). Michael Walzer è una delle figure più prominenti della filosofia politica americana, e uno degli esponenti più attivi nel dibattito della sinistra, in particolare dalle pagine della rivista Dissent, di cui è direttore, che raccoglie una parte importante della sinistra ebraica newyorkese. E, come si vede dalla scheda bio-bibliografica pubblicata qui accanto, con il passare degli anni l'appartenenza alla comunità ebraica ha acquistato un peso sempre più rilevante nella sua vita e nella sua riflessione.

Preoccupazioni per l'esistenza dello stato d'Israele si sono intrecciate alle sue riflessioni sulla guerra giusta. Così, contro i vari Noam Choamsky, Howard Zinn ed Edward Said, dopo l'11 settembre 2001, Michael Walzer ha appoggiato con forza la campagna in Afghanistan. Allora si creò una rottura insanabile tra l'anima liberal della sinistra e quella radical. La guerra in Iraq sembrava aver un po' ricompattato i ranghi dell'opposizione americana, ma una frattura rimane, come si evince dal saggio «An American Empire?» che Walzer ha pubblicato sull'ultimo numero di Dissent, dove la polemica sta tutta nel punto interrogativo.

Come si è evoluta la sua posizione rispetto a un anno fa?
«Non so se si è evoluta. Penso ancora, come ho scritto sulla New York Review of Books e sul Times a febbraio e a marzo, che non dovevamo andare in guerra contro il regime iracheno, mentre ero favorevole a un suo contenimento che avrebbe dovuto implicare un certo uso della forza. Ma ero contro una vera e propria guerra, e penso ancora che fosse moralmente e politicamente sbagliata. Che lo sia politicamente, è sempre più evidente. Ma una volta la guerra iniziata, bisognava vincerla: non ho manifestato a favore di un immediato cessate il fuoco perché qualunque esito diverso da una vittoria americana sarebbe stato interpretato in Medio Oriente e nel mondo come una vittoria di Saddam, il che sarebbe stato un disastro per gli iracheni e per gli abitanti della regione in generale. Una volta vinta, io ero, e sono, a favore di un'occupazione multilaterale, ma gli uomini di George W. Bush sono stati dopo la guerra altrettanto unilateralisti di quanto lo erano stati prima della guerra e, a mio avviso, gli europei - in particolare francesi, tedeschi e russi - sono stati altrettanto non di aiuto quanto lo erano prima della guerra. Gli uomini di Bush volevano condividere i costi dell'occupazione, ma non l'autorità, mentre gli europei volevano condividere l'autorità ma non i costi. Erano due posizioni insostenibili che hanno portato a uno stallo che non fa altro che confermare l'unilateralismo americano, che è pessimo, perché quest'occupazione mi pare sempre più ardua politicamente: è sempre più improbabile che l'occupazione possa concludersi con un regime di governo decente.
Però, proprio perché eravamo contrari alla guerra, adesso non possiamo prendere e andarcene: ci sono responsabilità che si accompagnano a ogni guerra, anche a una guerra ingiusta, specie a una guerra ingiusta. Così uno non può squagliarsela, ma deve sperare intanto che gli sciiti iracheni non somiglino agli sciiti iraniani di vent'anni fa, e che i fattori che stanno agendo nella politica iraniana siano al lavoro anche in quella irachena. In secondo luogo bisogna sperare in una costituzione che stabilisca protezioni per le minoranze contro una legge della maggioranza semplice (che è sciita): protezioni per la minoranza curda - un'autonomia che non finisca nell'indipendenza - e per la minoranza sunnita che è ora la maggior forte di resistenza e opposizione. Mi pare che una soluzione positiva di questo tipo sarebbe più facile da raggiungere se le Nazioni unite avessero un ruolo più importante.»

Ma non c'è una contraddizione paradossale tra un'amministrazione che in patria è contraria al nation building, cioè a un ruolo importante dello stato, e che invece si è costretta da sola a perseguire il nation building all'estero, in un paese occupato?
«Certo, non è il governo più adatto a portare a termine il lavoro che va fatto. Può fallire o riuscire nell'instaurare la democrazia a Baghdad, ma di sicuro è riuscito a introdurre il capitalismo clientelare a Baghdad con questi contratti appaltati a imprese ammanicate all'amministrazione Bush, con un disinteresse a costituire un'imprenditoria irachena competente e un ceto di tecnici iracheni qualificati.»

La guerra all'Iraq è stata presentata come un tassello della «guerra al terrorismo». Proprio questo concetto mi sembra sempre più scivoloso e pericoloso: la guerra è un preciso stato giuridico, con leggi di eccezione, con un nemico definito, con un preciso orizzonte temporale. Mentre la «guerra al terrorismo» - una metafora come la «guerra alla droga» - introduce una situazione giuridicamente ambigua, uno stato di guerra in tempo di pace, una terra di nessuno nel diritto: non si dichiara «guerra agli assassini», o «guerra agli scippatori». Inoltre anche il nemico è vaghissimo: gli Usa hanno dichiarato guerra non ad Al Qaeda, ma al «terrorismo», e si sa che i tuoi martiri sono i miei terroristi e che i terroristi che vincono diventano martiri e i martiri di una causa che ha perso diventano terroristi.
«No, penso che c'è una definizione ragionevolmente oggettiva di ciò che è terrorismo. Gli algerini vinsero e conquistarono l'indipendenza, ma la storia che adesso è scritta dagli algerini dice che l'Fln adottò tattiche terroriste. E il primo governo instaurato nell'Algeria indipendente, uccise, imprigionò o esiliò sistematicamente chiunque tra fosse stato implicato nel terrorismo.»

Ma il termine «terrorismo» divenne di uso comune quando i tedeschi indicarono i partigiani della resistenza come «terroristi».
«E la Bulgaria fu definita una «democrazia popolare»! Le parole possono essere distorte in politica. Non ci sono parole impossibili da distorcere. Si deve usare un concetto di democrazia che ci spiega come mai non si applicava alla Bulgaria del 1980, e un concetto di terrorismo che non si applica ai partigiani del maquis antinazista. Altra cosa è il concetto di «guerra al terrorismo». In primo luogo, non penso che la guerra contro l'Iraq ne faccia parte. La guerra in Afghanistan poteva essere connessa con la lotta contro Al Qaeda, contro questa particolare organizzazione terrorista responsabile dell'11 settembre. L'Iraq era una guerra che aveva altri scopi. La «guerra al terrorismo» è una metafora, come la «guerra alla droga», e crea problemi non di guerra giusta o ingiusta, ma di libertà civili, perché contro il terrorismo l'azione da condurre è quella di polizia, e l'azione di polizia mette sempre in questione le libertà civili.»

E Guantanamo?
«I prigionieri stanno sempre là, e il governo non sa cosa fare, non sa se processarli, pensa che rimandarli a casa sia pericoloso. Ormai è diventato uno scandalo e anche l'Associazione centrista degli avvocati nord-americani pensa che l'amministrazione stia stiracchiando il diritto.»

Nel suo ultimo articolo su Dissent, lei sostiene che a rigore non si può parlare d'impero americano perché impero è un concetto vecchio che non riesce a tenere conto delle nuove forme di dominio e di controllo. Mi pare invece che l'amministrazione Bush stia tornando a un impero coloniale ottocentesco.
«Certo, tentano, ma non possono riuscirci. E la prova è che paesi che noi pensavamo fossero nostri satelliti, nostre Bulgarie, stati come Cile, Messico e Turchia ci hanno sfidato sull'Iraq. E non c'era niente che potessimo fare.»

Sì, gli Usa sono il primo colonialismo culturale che si esercita per mezzo dei mass media e del web, e non attraverso gli apparati ideologici tradizionali come scuola, religione. Ma accanto ai nuovi strumenti, usa quelli classici: il potere di battere moneta - il dollaro ha il valore deciso dagli Usa -, il potere militare - occupa più di 100 paesi con 750 basi nel mondo e addestra ufficiali di 133 paesi. Questo è dominio classico. E ora l'amministrazione Bush vuole accelerare il dispiegamento di un esercito iracheno contro la guerriglia: è una vecchia tecnica coloniale, di uso delle truppe indigene, gli ascari, i sepoys, gli harkis.
«Cosa vuol dire? Noi vogliamo e dobbiamo districarci dall'Iraq e quindi ci deve essere un esercito iracheno che garantisca la stabilità del paese e che permetta di andarcene. Il grande errore è stato compiuto all'inizio dissolvendo l'esercito iracheno. Un Iraq indipendente dovrà avere il suo esercito, e non so quale sarà la relazione di questo Iraq indipendente con l'America. Se pensiamo che sarà un satellite, sospetto che ci sbagliamo, che non saremo capaci di farlo.»

È più probabile un esito di tipo latino-americano. Nella regione questa tendenza è già presente: Mubarak in Egitto è pro-americano e tirannico e corrotto. Il Kuwait non è un esempio di democrazia. Come disse un presidente americano del dittatore Somoza: «È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana».
«Sì, può darsi che produciamo un altro Saddam. Certo non mi aspetto di essere invitato in un prossimo futuro a un seminario dell'Università di Baghdad sulla cittadinanza democratica. No, ma io credo che il soft power clintoniano s'inserisca nell'internazionalismo liberale: è questa la forma che la legge americana ha avuto almeno fin da Truman, seppur con qualche eccezione in America latina. Gli uomini di Bush si ribellano a questa concezione, ma falliranno, come si può vedere in Iraq. L'11 settembre ha permesso loro di perseguire il proprio ordine del giorno, che era già prestabilito fin dal loro arrivo alla Casa bianca, e che era quello di un impero tradizionale, unilateralista, disinteressato alla Corte penale internazionale, a Kyoto, ai trattati sui missili balistici. Ma non credo che il mondo sia disponibile a questa politica e quest'impostazione porrà gli Usa in guai sempre più seri.»

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