Da La Stampa del 20/05/2005

In Italia la presenza femminile nel mondo del lavoro e del potere è inferiore a quella dello Zimbawe

La Caporetto delle donne

di Lucia Annunziata

L’ennesimo rapporto sulla Caporetto della vita professionale delle italiane - uno studio su 58 nazioni elaborato dal World Economic Forum, in cui l'Italia risulta per presenza delle donne nel mondo del lavoro e del potere al 45esimo posto, cioè sotto lo Zimbabwe - è stato di fatto ignorato dai media e dalla classe politica. Potremmo indignarci per questa ennesima indifferenza alle donne.

In realtà credo sia forse ora di andare al di là di uno sguardo femminile e guardare a questi rapporti per quello che sono: un quadro che dovrebbe preoccupare non le donne, ma la classe dirigente di questo Paese. Mettendo a confronto, come fa il World Economic Forum, parità retributiva, accesso al lavoro, presenza nei luoghi decisionali, l'istruzione e la salute, ne esce la fotografia di una occlusione dei canali di mobilità sociale, di una distorsione profonda del modo in cui cresce in Italia il mercato del lavoro. Intanto, anche se tradizionalmente sotto accusa è la politica e la sua incapacità di garantire accesso, in realtà bisogna ritornare a ragionare sulle aziende. Pochissimi i loro meriti infatti nei confronti delle donne. A cominciare dalla esile pattuglia nella rappresentanza di Confindustria, per finire ai gruppi privati e pubblici. Ma se dobbiamo prendere un esempio emblematico del clima italiano, in tutta la sua schizofrenica combinazione, val la pena forse di indicare i grandi gruppi editoriali.

I media infatti sono le aziende che maggiormente hanno aperto le porte alla presenza di giovani e donne negli ultimi anni; da queste presenze sono stati attraversati e definiti - eppure i loro valori (e dunque il loro linguaggio) sono rimasti tetragoni specchi di una società strettamente piramidale. Alla cui cima c'è l'intoccabile (e incomprensibile per i lettori) gotha economico e alla cui base c'è la coppia sesso/società, in cui le donne - e qui davvero non è un caso - sono solo di due tipi: le bellone, che si offrono al sollazzo generale, ma al contempo si sminuiscono; e le ambiziose, brutte o cattive, o le due cose insieme.

Insomma, e non dico nulla di nuovo, l'ambizione femminile in Italia si muove fra indifferenza, irrisione, e stereotipi. Ma, appunto, è questo un problema delle donne? Amerei dire di sì, e aggiungere che è una questione di cultura «patriarcale» come dice il World Economic Forum (che non a caso spiega così anche le pessime performance in questo campo della Grecia, altro Paese del Sud Europa). Staremmo tutti meglio: conoscere le radici della colpa è in fondo consolatorio. Ma il fatto è che io non credo che sia così. Non è una questione di «maschilismo».

Nella lunga esperienza di lavoro, fianco a fianco a tanti uomini, ho imparato credo anche la loro verità: cioè che anche per loro fare carriera è durissima. Che indifferenza, irrisione, e stereotipi che sbarrano la strada alle donne sbarrano e segano anche le ambizioni degli uomini. La verità di fondo è che fare carriera in Italia è un incubo per tutti.

Fare carriera nel nostro Paese (e osi alzare la mano qualcuno che nega) è una guerra aperta fra cordate economiche e lobby di influenza, condizionamenti incrociati e sbarramenti vari, la cui natura è di classe, di opinione e (persino) di religione - prima ancora che di sesso. Funziona così in tutti i Paesi del mondo, dicono i cinici. Ma non è vero: in Italia manca quel meccanismo riequilibrante della competizione sociale che è la funzionalità preminente e finale del merito, sulle finalità diverse del ruolo che si assume. Fare carriera in Italia è spesso il perfetto rovescio della meritocrazia, dell'avanzamento in trasparenza, del valore dei curriculum. Essere bravi è condizione fondante ma non sufficiente. E questo lo sanno i maschi ancora prima delle donne - maschi il cui successo è spesso pagato con prezzi che non vale nemmeno la pena di invidiare.

Questa dinamica ha di certo una spiegazione: essa è lo specchio perfetto di un Paese in cui il potere decisionale è ancora troppo concentrato in troppe poche mani. E in cui sono assenti i tradizionali bilanciamenti che, in tutte le democrazie occidentali, compensano questo potere chiuso: la scuola, innanzitutto, e un sistema sociale di supporto economico (borse di studio, stage etc) per le famiglie.

In questa geografia chiusa, il successo dei giovani in Italia è dunque ancora oggi definito più dalla vicinanza-lontananza da questi centri di potere, che dal discorso uomo-donna: nascere a Reggio Calabria invece che a Milano, aver avuto una famiglia che ti ha mandato alla scuola buona invece che in quella di quartiere, e aver avuto un padre che ti ha spianata la strada invece di un padre che è stato spianato dalla vita. Rimane infatti sempre una sconcertante caratteristica italica vedere nell'elenco della classe dirigente tanti «figli di». E in quell'elenco non è un caso che spesso ci siano più donne che uomini: le possibilità di un intelligente ragazzo aspirante giornalista maschio nato a Fisciano di mettere piede in una redazione rimangono infatti ancora oggi infinitamente più basse di quelle di una ragazza sua coetanea che abita a Roma.

Di questa concentrazione di poteri che si esprimono attraverso lobby, cordate e gruppi di pressione, la struttura della politica che viene spesso indicata in Italia come la grande «corruttrice» del merito pubblico, non è in realtà la parte peggiore. Pur essendo essa stessa sempre più una lobby e una cordata, finora la politica, sia di destra che di sinistra, è stata in Italia anche garante di una mobilità sociale. Spesso una lobby contro le altre lobby: è stata infatti battezzata più nuova classe dirigente in Parlamento e nelle industrie di Stato che nei gruppi privati. E grazie al forte assoggettamento del potere economico alla politica, questa ha finito con esserne spesso un utile controbilanciamento, persino senza volerlo. La questione Nord e Sud è perfettamente leggibile in questa chiave.

Insomma, io non credo che la discriminazione sia un fattore contro le donne; essa appare invece, guardata nel suo insieme, come una deviazione del sistema, che colpisce gli uomini quanto le donne. Per le donne c'è di sicuro poi una aggravante in più: ma nella conflittualità uomo-donna si esprime, a questo stadio, piuttosto una spinta keynesiana del mercato, un istinto ad agire sulla decimazione dell'elemento debole per fare posto a un elemento altrettanto debole, l'uomo, ma marginalmente privilegiato per tradizione. Naturalmente questo è anche uno dei punti deboli del mercato: la divisione del peso e della utilità dei sessi nel mondo del lavoro, è alla fine funzionale solo alla perpetuazione del sistema dei pochi. Mentre è invece di sicuro un elemento che si aggiunge alle rigidità e alla mancanza di stimoli che appesantiscono la nostra economia.

Riportando, tuttavia, il discorso sulle donne: questo stato delle cose le donne l'hanno capito benissimo: sanno dai mariti, dai loro amici, dai loro padri, il costo del successo; così come sanno che quando si arriva alla guerra uomo-donna, le forze sono già stremate, e le file delle donne già sfoltite.

Non c'è dunque da meravigliarsi se da anni ormai le donne italiane sono in ritirata strategica. Le scelte di sopravvivenza variano - c'è chi traccia percorsi di vita interiori (invece che di sistema), altre fanno le giapponesi, assicurandosi una postazione da dove fare una guerra agli uomini sullo stesso campo (e si rassegnano a una lunga vita densa di imboscate); la maggior parte tuttavia sceglie di rimanere nei confini dei ruoli, nella speranza che una donna-donna, una figura tradizionale del femminile trovi almeno da pascolare tra le briciole di quello che lasciano i maschi.

Il mercato, come ho detto, paga il prezzo di questa ritirata. Ma, soggettivamente, lo pagano anche le donne italiane: se chiedete infatti in giro oggi di chi è la colpa di questa permanente subordinazione femminile, la risposta sarà in molti casi «Ma delle donne, no?».

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