Da Corriere della Sera del 20/05/2005

E Siniscalco gioca con il premier la carta di Moody’s

A sorpresa i rappresentanti dell’agenzia di rating a colloquio per un’ora con Berlusconi. Il nodo del voto sul debito

di Mario Sensini

ROMA - «Questo nel breve periodo. Mentre nel lungo termine... saremo tutti morti, come diciamo noi economisti». Domenico Siniscalco voleva solo sdrammatizzare. E forse anche Silvio Berlusconi, replicando al suo ministro uno scaramantico: «Tu, per piacere, pensa per te». Eppure c’è chi, nel governo, ha interpretato quel siparietto di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi davanti alle parti sociali, come l’ennesimo segnale di un rapporto sempre più freddo e distante tra il presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Economia. Che ieri, per rappresentargli direttamente l’apprensione dei mercati per la situazione italiana, s’è presentato a casa del premier subito dopo pranzo portando con sé due analisti di Moody’s, la società che dà i voti al debito degli Stati, spauracchio di tutti i governi sulla faccia della terra.

Incontro decisamente irrituale, quello degli emissari di un’ agenzia di rating con un presidente del Consiglio. Sicuramente mai accaduto prima, in Italia. «Neanche nel ’92», assicura Piero Barucci, al timone del Tesoro mentre infuriava la tempesta sulla lira.

Fino a pochi anni fa, del resto, solo i ministri del Tesoro sapevano cosa facessero esattamente quei signori. A Palazzo Chigi, nel ’91, il sottosegretario alla Presidenza Nino Cristofori scoprì, con il primo declassamento, di avere davanti un nemico. «L’agenzia d stampa Mundis, cosa vuole da noi? Se sono americani pensino al loro debito. Se sono tedeschi pure. Noi pensiamo al nostro», disse Cristofori. Che pochi mesi dopo, di fronte al nuovo declassamento, questa volta di Standard and Poor’s, denunciò addirittura «un tentativo di aggiottaggio».

I tempi da allora sono cambiati, ma resta il fatto che mai prima d’ora un Senior Analist, benché Vice President della sezione Sovereign, come Sara Bertin Levecq, venisse portata al cospetto di un presidente del Consiglio di un paese con i conti pericolosamente in bilico.

Un’altra prova, si sostiene nella maggioranza, del braccio di ferro in corso con Siniscalco. Almeno nella situazione attuale, con Silvio Berlusconi lanciato alla riconquista del consenso con una coalizione dove quelli che dicono «costi quel che costi» sono quasi diventati maggioranza.

A fargli da contraltare, nella posizione delicatissima di ministro di un’economia che non cresce, un economista che si definisce «un tecnico pronto a offrire ai politici le soluzioni» e che oggi sembra rimasto prigioniero del suo ruolo. Tanto che il consigliere economico del premier, Renato Brunetta, sostiene senza mezzi termini che Siniscalco non è mai diventato ministro dell’Economia, ma è sempre rimasto solo «il direttore generale del Tesoro». Sospetto che comincia a circolare anche tra i sindacati, se è vero che ieri, durante il vertice a Palazzo Chigi, Adriano Musi della Uil se n’è uscito dicendo che «se sul pubblico deve decidere l’Istat, tanto valeva nominare ministro Luigi Biggeri». Il vero ministro, per Brunetta e gli altri, è semmai Giulio Tremonti, che nelle interviste sollecita un taglio dell’Irap immediato e per decreto.

Al di là delle diffidenze congenite (Siniscalco nasce politicamente a sinistra, anche se ritiene di aver fatto ormai la sua scelta di campo), la cosa certa è che il ministro è seriamente preoccupato per la situazione dei conti pubblici italiani. Così come di spegnere qualsiasi velleità politica che porterebbe la finanza pubblica definitivamente fuori controllo. In perfetta sintonia su questo con il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, che non gli ha fatto mancare nei tempi più recenti il suo aperto sostegno. Così, se Berlusconi immagina uno sgravio Irpef da 12 miliardi di euro in un solo anno, Siniscalco replica candido che lui deve «guardare alla compatibilità finanziaria» e che quindi l’operazione si può fare, «ma almeno in due o tre anni». E se il capo vuole anticipare la presentazione del Dpef, lui ribatte che è solo «un’ansia di accelerazione», che un Dpef fatto adesso sarebbe «fondato sulla sabbia, perché fino a fine giugno non avremo i dati fiscali necessari per costruire le previsioni». Offrendo spunti a chi lo contesta, trovandolo forse troppo scomodo per le esigenze dell’esecutivo.

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