Da La Repubblica del 20/05/2005

Negli anni Novanta in prigione circolavano donne e champagne. E i mafiosi commissionavano omicidi parlando in codice con i figli adolescenti

Quando dal "Grand Hotel Ucciardone" i boss davano ordini con il telefonino

Il direttore ossequiava i capi di Cosa nostra e loro contribuivano a mantenere l'ordine

di Attilio Bolzoni

Palermo, carcere dell'Ucciardone, una mattina qualunque di colloqui nel girone dei mafiosi. Il padre saluta il figlio, gli sorride, si avvicina, l'abbraccia e gli sussurra all'orecchio: «Non ti dimenticare, acchiappalo per le corna che quello mi deve dare i piccioli». Il bambino non ha ancora dieci anni, è emozionato, gli risponde solo: «Papà». Poi il padre abbraccia l'altro figlio che di anni ne ha tredici e gli ringhia: «A tuo cugino diglielo, che è pratico di animali». Il figlio non capisce bene: «Che dobbiamo fare, la scanniamo o non la scanniamo questa vacca?». Ancora il padre: «Ci sono quelli più grandi di te che lo sanno fare meglio». Il boss che parla è Vito Vitale di Partinico e la «vacca» è un uomo di San Giuseppe Jato, un uomo da uccidere.

Così si ordina un omicidio dal carcere.

Brucoli, provincia di Siracusa, casa circondariale, quarto braccio, mezzanotte. In una cella, «sorvegliato a vista 24 ore su 24» c'è Santo Mazzei, sicario catanese amico di Totò Riina. Dal materasso sfila un cellulare e compone a memoria un numero.

Chiede: «Sei sveglio?». Dall'altra parte c'è un suo amico che si chiama Massimiliano Vincinguerra: «Ti volevo dire tante cose, ma siamo sempre via cavo». Mazzei: «Vabbè, non è un problema quei documenti me li farai avere?». L'altro: «Chiamami pure quando vuoi». Così si conservano i contatti con il mondo.

Delitti, chiacchiere, riunioni della Cupola. E anche piaceri.

Tutto può permettersi la mafia in prigione. Da sempre. Prima e dopo il famigerato 41 bis, prima e dopo le leggi speciali, i regimi «differenziati», le isole trasformate in bagni penali riservati ai più pericolosi capi della Cosa Nostra. Prima e dopo, la differenza sta solo in un po' di folklore che si è perduto, per il resto comandano sempre. E dispongono, regnano, trasmettono le loro «ambasciate», gli ordini all'esterno. Una volta erano quasi sempre gli avvocati che li portavano fuori, i «consigliori» delle cosche che comunicavano i voleri del patriarca ai rampolli della «famiglia» che erano ancora liberi. Poi i boss si sono arrangiati come potevano. Con i «pizzini», i bigliettini fatti scivolare nelle tasche della moglie o del fratello. Con la «parlata» muta, i gesti del capo, le mani che si muovono in un certo modo per dire certe cose e in un altro modo per dirne altre. Con i servigi delle guardie infedeli. Ma quelli non abdicano mai, non rinunciano mai al potere soltanto perché li hanno chiusi in un braccio speciale.

E' sempre andata così. In carcere la mafia è sempre mafia. Fin dagli anni «ruggenti» di Palermo, fin da quando i boss raccontavano che erano stati «in villeggiatura». Volevano far sapere che avevano passato qualche mese all'Ucciardone.

Ci stavano bene là dentro, fasciati nelle loro vestaglie di seta e riveriti come pascià, serviti dai secondini, sempre attorniati da quella corte di «bravi ragazzi» dai gesti lenti, dai volti picareschi. Si facevano portare alla «settima» e ritrovavano qualche vecchio compare, nel cortile passeggiavano tenendosi sotto braccio e lontano dagli altri, avevano in tasca le chiavi dell'infermeria, il direttore li ossequiava e contava sulla loro autorità per mantenere l'ordine nella sua prigione. Alla mattina, dall'Acquasanta o dall'Arenella mandavano le aragoste vive. Alla sera, brindavano a champagne. E a volte entrava pure qualche femmina. L'indirizzo era via Albanese numero 14. Stava proprio lì il Grand Hotel dell'Ucciardone.

Rifiutavano il rancio, «il cibo del governo». Era disonorevole. E dicevano «che il carcere bisognava farlo con dignità», tanto lo sapevano che sarebbero presto usciti «aggiustando» un processo e corrompendo un giudice.

Ma quei tempi non tornarono più dopo le stragi. Fu la notte tra il 19 e il 20 di luglio del '92 che i parà della Folgore irruppero all'Ucciardone e deportarono tutti i boss nelle isole di Pianosa e dell'Asinara.

Fu approvato il regime duro, i prigionieri di Cosa Nostra li chiamarono «i dannati» del 41 bis. Isolati dagli altri detenuti, sbattuti in celle buie, costretti a vedere i familiari una volta al mese. Il vice capo della Dia del tempo era Gianni De Gennaro, aveva ordinato ai suoi di tenere i serbatoi pieni degli elicotterri e i piloti sempre a pronti a decollare. Si stavano pentendo i primi boss. Ma durò poco l'«inferno» delle isole. Già il primo di settembre di quel 1992 Giuseppe Marchese, l'autista di Totò Riina, raccontava ai procuratori di Palermo: «Anche a Pianosa riuscivamo a mandare messaggi fuori con i bigliettini». Era stato anche all'Ucciardone, Marchese. E tre anni prima aveva fatto fuori il boss Vincenzo Puccio. Erano compagni di cella, una mattina gli fracassò la testa. Disse che avevano litigato per un programma in tivù. Ma alla stessa ora di quello stesso giorno Pietro Puccio, il fratello di Vincenzo, fu assassinato al cimitero dei Rotoli mentre pregava sulla tomba della madre. Omicidi in simultanea, ordini che entravano e uscivano dal carcere. E i Puccio dovevano morire.

All'Ucciardone in quegli anni accadeva di tutto. Come quel giorno che il boss Saro Riccobono andò a trovare Gaspare Mutolo. Si presentò con il suo nome e lo fecero entrare. E anche uscire. Don Saro era latitante.

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