Da La Repubblica del 18/05/2005

La tentazione neodemocristiana

di Ilvo Diamanti

E' finita a Catania la grande paura del centrodestra e del suo leader. La paura dell'implosione. A Catania era stata piantata la bandiera della roccaforte azzurra del Sud: la Sicilia. Dove alle elezioni politiche del 2001 la CdL aveva fatto il pieno di seggi: 61 a 0. Dopo un mese di sconfitte elettorali, consumate soprattutto nel Mezzogiorno, il voto di Catania si è caricato di significato. La linea del Piave spostata a Sud Ovest: ha tenuto. E oggi tutti – o quasi – tirano un sospiro di sollievo, nel centrodestra

Tuttavia, questo risultato non cambia, nella sostanza, l'agenda dei problemi per Berlusconi, Forza Italia e la CdL.

1. Forza Italia resta un partito debole. A Catania ha perso il 10% rispetto a 5 anni fa. A Enna il 7%.

La vittoria del centrodestra, invece, dipende dagli altri partiti, radicati in ambito locale: An e Udc. Ma soprattutto dal contributo dei leader "regionali" di questi partiti: Lombardo e Musumeci. E dalla loro rete di relazioni con la società locale. Forza Italia resta, quindi, un partito "debole"; una pianta che, per attecchire al territorio, deve attaccarsi alle radici di altri arbusti, piccoli ma longevi.

2. Berlusconi ha abbandonato l'illusione che si possa fare politica dall'alto, per via mediatica e carismatica. Se per anni aveva trascurato le vicende politiche e di partito, in ambito nazionale e locale, stavolta si è speso in prima persona. E' nuovamente "sceso in campo".

3. Ancora una volta, è risultato determinante il voto degli elettori più lontani dalla politica. I più incerti. Spesso riassunti, in modo improprio, come elettori moderati e di centro. In realtà si tratta di elettori, perlopiù, disincantati e marginali dal punto di vista economico e sociale. Che, spesso, votano in base alla logica dello scambio, fra benefici e consenso. Il loro voto è orientato da figure e gruppi, che, nella prima Repubblica, facevano riferimento soprattutto alla Dc (il partito che garantiva accesso al potere centrale e locale). Questi soggetti, nell'occasione, sono stati intercettati soprattutto dal centrodestra. Non è un caso che Scapagnini abbia ottenuto i risultati migliori nelle periferie popolari e degradate; dove il distacco dalla politica è più alto. Dove il centrosinistra non è stato in grado neppure di predisporre una adeguata rete di rappresentanti di lista, al momento dello spoglio. E' (anche) la mobilitazione di questi settori sociali che spiega la partecipazione elettorale raggiunta in questa occasione. Il 75%: 6 punti in più della consultazione precedente.

4. I limiti del "modello Berlusconi" e di Forza Italia, per questo, appaiono confermati e, semmai, accentuati. Berlusconi, in altri termini, è costretto a "fare politica", a confrontarsi con la società e con il territorio. Deve, inoltre, affidarsi al sostegno dei soggetti politici e ai gruppi di potere locale. La sua leadership, di conseguenza, dipende e dipenderà non tanto dalla sua capacità di seduzione e di comunicazione, ma, sempre più, dalla capacità di mediazione e di coalizione. Peraltro, riconquistare Catania lascia intatto il problema alla base della crisi della CdL: come tenere insieme territori e interessi tanto diversi? Come comporre, in un unico contenitore, le rivendicazioni del Nord Est e del Sud Ovest? Dei lavoratori autonomi e degli operai privati con quelle dei lavoratori pubblici? Come rendere compatibili gli interventi e, prima ancora, i "discorsi" politici quando si voterà, nello stesso momento, a Catania, Bari, Bergamo e Treviso?

Il voto di Catania, però, interroga anche il centrosinistra. Il quale ragionava, fino a ieri, come se la vittoria alle politiche dell'anno prossimo fosse già segnata. Dettata dal "declino" (parola-chiave buona per ogni occasione, di questi tempi) inevitabile e inarrestabile del "berlusconismo". A Catania, ad esempio, il centrosinistra, per vincere, riteneva sufficiente proporre un candidato di prestigio, come Enzo Bianco, raccogliendo, attorno a lui, tutte le sigle dell'area. In ordine rigorosamente sparso. Non è bastato. E oggi, nel centrosinistra, di fronte alla sconfitta, si osservano orientamenti facili quanto riduttivi. E rischiosi. Tre, in particolare.

1. La svalutazione localista, che induce a delimitare il voto di Catania, come un episodio "siciliano". Mentre in Italia vige una sorta di democrazia elettorale, nella quale ogni voto, ogni consultazione, per quanto delimitata, produce effetti significativi sul sistema politico nazionale.

2. La stigmatizzazione moralista, che tende a liquidare la vittoria del centrodestra come frutto di un voto clientelare e, quasi, "colombiano". Il che non spiega perché non distante (a Enna, ad esempio) il centrosinistra abbia egualmente vinto. E perché, nella stessa Catania, Bianco abbia governato per 8 anni. Il fatto è che il clientelismo attecchisce e si sviluppa dove la società civile e la politica sono più deboli.

3. La tentazione neodemocristiana. Che induce a considerare il voto di Catania una conferma della necessità di inseguire gli elettori incerti e impolitici sul loro terreno. Attribuendo più peso a soggetti inseriti nella rete degli interessi e delle relazioni locali. In altri termini: garantendo maggiore spazio e visibilità ai partiti e agli uomini del "centro". Come ha fatto il centrodestra, a Catania. Com'è riuscito a fare il centrosinistra, con successo, in Campania o in Calabria.

Così, la consultazione di Catania potrebbe produrre conseguenze significative, per il centrosinistra. Non tanto per il risultato in sé, ma per il significato che gli viene attribuito. Può essere salutare: se aiuta a comprendere che, in tempi di democrazia fluida, la competizione elettorale è sempre aperta. E incerta. Ma anche dannoso: se indebolisce l'unione, aumenta la divisione e moltiplica i personalismi. Se induce ad affrontare la nuova domanda di partecipazione oppure il disincanto dei cittadini attraverso vecchie esperienze politiche.

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