Da Corriere della Sera del 19/05/2005

Sbaglia chi pensa che, scomparsa la minaccia sovietica, l’Ue abbia una ragion d’essere solo come zona di libero scambio

Sovranità addio, l’Europa dopo le tragedie del ’900

di Sergio Romano

Fra gli euroscettici molti pensano che la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica abbiano dato un colpo mortale agli ideali europeisti del secondo dopoguerra. Non credono che l’idea di Europa abbia origini antiche e forti motivazioni ideali. Sostengono che i progetti d’integrazione lanciati alla fine degli anni Quaranta, e molto incoraggiati allora dagli Stati Uniti, furono il risultato di una situazione contingente: la necessità di organizzare i Paesi dell’Europa occidentale contro la minaccia sovietica. A quello scopo gli americani fornirono due ingredienti indispensabili: il denaro del Piano Marshall e le armi della Nato. Dopo il collasso del sistema comunista fra il 1989 e il 1991, l’Europa unita, quindi, non avrebbe più ragione di esistere se non come grande zona di libero scambio, priva di inutili ambizioni e di politica estera. L’ondata euroscettica che si è abbattuta sul continente in questi ultimi anni e il clima dell’opinione pubblica in alcuni Paesi europei alla vigilia della ratifica del trattato costituzionale, sembrano confermare la bontà dell’analisi. Se esiste ancora qualche vecchio europeista, allevato alla scuola di Jean Monnet o di Altiero Spinelli, farà bene a mettersi il cuore in pace. Gli Stati nazionali non godono di buona salute, ma sono le sole case in cui i cittadini europei, pur continuando a brontolare contro i rispettivi governi, abbiano voglia di vivere. Credo che questa analisi non tenga conto del processo di degenerazione e declino che gli Stati nazionali hanno subito nel corso del Novecento. Il loro trionfo, dopo il crollo degli imperi multinazionali alla fine della Grande guerra, fu pagato da un prezzo altissimo: milioni di morti sui campi di battaglia, città distrutte, economie sconvolte, popolazioni cacciate dalle loro case e una folla di veterani, decisi a pretendere un compenso, politico ed economico, per gli anni bruciati in trincea. Mentre la Belle Époque , sino all’attentato di Sarajevo, sembrava destinata a ridurre progressivamente il divario tra le grandi ricchezze e le grandi povertà, la guerra ebbe il tragico effetto di rendere il fossato ancora più iniquo e profondo. La Rivoluzione d’ottobre s’impadronì della rabbia popolare, soprattutto nei Paesi sconfitti, e le dette una bandiera. Non è vero che i combattimenti terminarono nel novembre del 1918. Mentre si spegnevano i fuochi della Grande guerra, si accendevano altri conflitti, spesso civili e non meno sanguinosi di quelli appena terminati: tedeschi contro bolscevichi nel Baltico, russi contro polacchi in Ucraina e in Galizia, rossi contro bianchi negli sterminati territori dell’ex impero zarista, tribù islamiche contro i bolscevichi in Asia centrale, turchi contro greci in Anatolia, romeni contro ungheresi in Transilvania e in Ungheria, socialisti e spartachisti contro polizie ed eserciti «borghesi» a Berlino, Kiel, Monaco di Baviera, Budapest, Vienna. Persino in alcuni Paesi vincitori (l’Italia in particolare) si combattè fra il 1919 e l’inizio degli anni Venti una strisciante guerra civile. Persino nella più antica e solida democrazia europea, la Gran Bretagna, esplose una sanguinosa guerra di secessione irlandese. Persino un Paese neutrale e «periferico», la Spagna, fu sconvolto, con qualche anno di ritardo, da una lunga guerra civile. Persino la Francia «una e indivisibile» oscillò pericolosamente, tra il 1934 e il 1936, sull’orlo di un potenziale conflitto domestico fra i partiti di sinistra e le Leghe nazionaliste.

Mentre i «rossi» tentavano di mobilitare le masse e conquistare il potere, erano apparse nel frattempo forze politiche nuove. Si componevano di ex combattenti e avevano una organizzazione militare, una struttura fortemente gerarchica, uno stile marziale e un capo che venne chiamato Duce, Führer, Caudillo, Conducator, Poglavnik. Il loro programma era una combinazione (diversa da un Paese all’altro) di nazionalismo e socialismo. Erano movimenti bellicisti e revanscisti, soprattutto nei Paesi sconfitti e mutilati dai trattati di Versailles. Erano anticomunisti, ma anche, per molti aspetti, anticapitalisti e decisi a sostituire le vecchie classi sociali con una «società dei produttori». In alcuni dei Paesi in cui conquistarono il potere, queste forze proseguirono la guerra civile reprimendo duramente tutti coloro (comunisti, dissidenti democratici, ebrei, zingari) che insidiavano la purezza della nazione e l’integrità dello Stato etico. Lo stesso accadde nella patria del socialismo, dove il partito al potere e il suo leader trattarono i propri cittadini come se fossero i loro principali nemici.

La Seconda guerra mondiale completò la distruzione degli Stati nazionali europei. Nei Paesi occupati dalla Germania il potere cadde nelle mani di forze antibolsceviche, modellate sui partiti fascista e nazionalsocialista. Ma quelle forze furono duramente combattute da movimenti di resistenza in cui confluirono comunisti, liberali, socialdemocratici, cristiani democratici. E si trattò ancora una volta di guerre civili, che lasciarono nel corpo delle società nazionali ferite non rimarginate. Più tardi, nei Paesi «liberati» dall’Armata Rossa, il potere finì nelle mani di coloro che avevano trovato rifugio in Unione Sovietica negli anni precedenti e che applicarono ai loro Paesi le stesse strategie repressive utilizzate da Stalin in Russia. Nei Paesi liberati dagli angloamericani, invece, vinse la democrazia. Ma la libertà venne riconquistata a un prezzo: la cessione agli Stati Uniti di una parte considerevole della sovranità politica e militare dei singoli Stati europei. Francia e Gran Bretagna rappresentano ancora oggi, per alcuni aspetti, una eccezione. Ma la Francia, dopo la disfatta del 1940, ha subito due pesanti sconfitte, in Vietnam e Algeria; mentre la Gran Bretagna sembra ormai avere legato indissolubilmente il proprio destino a quello della sua vecchia colonia al di là dell’Atlantico.

Gli euroscettici sostengono che quella fase si è ormai conclusa e che la fine della Guerra fredda ha restituito libertà e sovranità a tutti gli Stati europei. Ma l’esercizio della sovranità, a giudicare dalla politica estera di molti Paesi dell’Unione, consiste ormai in spregiudicati e indecorosi equilibrismi fra Bruxelles e Washington, tra i vantaggi dell’Unione europea e l’amicizia del Grande protettore. Al momento della guerra irachena, l’Europa non si è divisa dopo un dibattito sulla pericolosità del regime di Saddam Hussein. Si è divisa sul rapporto che ogni Paese dell’Unione desiderava avere con gli Stati Uniti. Ci siamo condannati in tal modo a una piccola e meschina politica estera, in cui ogni Paese cerca di trarre vantaggio dalla propria utilità marginale o dal proprio velleitario dissenso. Nulla di nuovo. Così fecero i duchi di Savoia, i re di Sardegna, i dogi di Venezia, i granduchi di Toscana e i re di Napoli per buona parte della loro storia secolare. Ma non è questa forse la ragione per cui diventammo italiani? Oggi, in Europa, siamo tutti ridotti alla dimensione del Piemonte. E soltanto l’Unione può restituire dignità al continente.

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