Da La Repubblica del 12/07/2005

Le reclute dell'odio fuori moschea

di Renzo Guolo

COLPENDO Londra nel giorno in cui gli occhi del mondo erano puntati sul G8 gli jihadisti hanno imposto innanzitutto la loro agenda politica. Agenda incentrata sulla sola questione che ritengono rilevante: la guerra all'Occidente. Purtroppo, non è una novità. Ma il secondo attacco all'Europa, un tempo "terra di tregua" per gli jihadisti, solleva l'interrogativo sulle strategie di contrasto al terrorismo islamista sin qui adottate. Davanti al nuovo massacro qualcuno invoca una risposta sempre più muscolare. Ma sotto le macerie del Tube, oltre alle vittime innocenti, rimane anche la strategia di Bush, rivelatasi inefficace nel prevenire simili attacchi.

La strage di Londra, come già quella di Madrid, dimostra semmai che affrontare secondo vecchi schemi chi pratica la guerra asimmetrica è del tutto inutile. Tanto più se questa si estende a livello globale.

L'invasione dell'Afghanistan è stato l'ultimo, necessario, canto del cigno della guerra convenzionale contro un nemico sfuggente e mutante nelle sue forme. Privare in quel caso Al Qaeda del suo santuario era una mossa obbligata. Ma le scie bianche dei B52 nei cieli di Tora Bora segnano già un passaggio d'epoca. La caduta dell'ultimo spazio statale islamista, seppure sui generis come quello dell'Emirato del mullah Omar, provoca sia la diaspora di Al Qaeda storica, sia la definitiva trasformazione della "guerra per la sovranità di Allah" nel Jihad globale teorizzato da Zawahiri. La polemologia dell'ideologo egiziano prende avvio dalla constatazione che il jihad nazionale è ormai forma di guerra obsoleta, perché tutta dentro al quadro statale e territoriale, e perché destinata alla sconfitta, causa i rapporti di forza e la mancanza di consenso. L'ossessione del "nemico lontano" nasce anche da questa presa d'atto, oltre che dal giudizio antropologicamente negativo secondo cui i popoli occidentali, avvinti nelle spire della civiltà dei consumi, non potranno reggere a lungo a una diffusa e indiscriminata campagna del terrore.

L'amministrazione Bush sembra non aver compreso il mutamento nella forma della guerra imposto dallo jihadismo globale. Non a caso ha mantenuto anche dopo l'11 settembre la decisione, programmata prima delle Twin Towes, d'intervenire in Iraq. Decisione che rivela l'incapacità dell'attuale leadership Usa di concepire il conflitto con lo jihadismo radicale fuori da schemi novecenteschi. Ma nessun esercito, nemmeno quello americano, può sradicare, con la sola forza, un movimento che pratica la guerra asimmetrica. Se non bastasse l'Iraq a rivelare impietosamente i limiti della strategia di Washington, a farlo sono oggi i tragici sventramenti nei vagoni della Tube come ieri nei treni di Atocha. La guerra convenzionale ha semmai rafforzato i settori islamisti più radicali, che la combattono destrutturandola ogni giorno, come dimostrano l'abbondante disponibilità di attentatori suicidi in Iraq e il continuo flusso nelle piane mesopotamiche di mujahiddin. Flusso che ha dato origine al secondo, rilevante, episodio di "internazionalismo islamista", dopo quello degli anni ‘80 durante il Jihad antisovietico in Afghanistan. La strategia della Casa Bianca si è fondata sull'assioma "lì combattiamo lì per non affrontarli qui". Strategia che presupponeva un mondo preglobale, in cui i confini fossero stabili e le forze dei rispettivi campi poco mobili. Ma l'intensa compressione spazio-temporale che caratterizza l'attuale fase della globalizzazione, mette in crisi un'idea di guerra al terrore localizzata. Il jihad globale si combatte ovunque. A Hilla come a New York, a Spin Boldak come a Madrid o Londra. Relegando, in questo caso, la guerra convenzionale nell'armadio della rigida era fordista popolata da istituzioni pesanti. Il jihad globale è infatti figlio della modernità liquida, direbbe Bauman, caratterizzata da strutture mobili non saldamente ancorate al territorio. Caratteristica che le formazioni politico-militari jihadiste hanno intuito, sfruttando le "conseguenze secondarie", irriflesse, della nuova modernità anche nel campo della guerra. Non a caso la mutante Al Qaeda è sempre più "rete di reti", anziché organizzazione centralizzata e rigidamente gerarchizzata, composta da cellule autonome, che condividono una medesima ideologia e medesimi obiettivi, e che si costituiscono attorno a un progetto specifico, fosse pure un solo attentato.

Una "rete di reti" che conta molti adepti anche in Europa. Formate da elementi mobili che provengono da altri continenti e fungono da catalizzatori di elementi locali, a volte cittadini di singoli paesi decisi, per motivi ideologici o sociali, a combattere il sistema di valori in cui sono cresciuti. Anche se non ancora disponibili al "sacrificio". Come sembrano confermare gli attentati spagnoli e britannici, sfociati in uno stragismo senza martirio. Una modalità, quella che preferisce il timer allo shahid, che rivela una certa secolarizzazione del terrorismo jihadista continentale: non per questo meno pericolosa perché obbliga alla scelta di "soft target" anziché obiettivi-simbolo più difficili da raggiungere senza l'ausilio di una bomba umana guidata.

La trasformazione della guerra jihadista mette in crisi anche consolidate tecniche d'intelligence occidentale. L'affermazione del ministro dell'Interno britannico Clarke, secondo il quale i terroristi che hanno attaccato Londra, sembrano spuntare «dal nulla» è rivelatrice. La Gran Bretagna, e in particolare la sua capitale, non a caso definita polemicamente da alcuni Londonistan, ha sempre ospitato militanti simpatizzanti dell'islam politico. Convinzioni liberali e inconfessati scambi politici sul terreno della sicurezza hanno orientato una simile politica. Ma dopo l'11 settembre, e l'inasprimento della legislazione antiterrorismo, gli ambienti radicali sono stati costantemente "monitorati". I servizi inglesi non sono però riusciti a leggere la nascita di un nuovo fenomeno: lo jihadismo fuori moschea. Reclutamento e formazione degli "jihadisti senza martirio" non avvengono più, esclusivamente, nei sorvegliati luoghi di culto, popolati ormai da militanti "bruciati" o che fungono ormai da indiretti anelli di congiunzione, ma in altri luoghi sociali. L'investimento viene fatto sempre più su elementi caratterizzati da mimetici stili di vita occidentali. Del resto per i nuovi jihadisti, talvolta occidentali di terza generazione, assumere identità plurime che ne permettono il travisamento sociale è semplice.

Se dunque il Jihad globale investe l'Occidente nel "doppio fronte", esterno e interno, con modalità del tutto nuove, le tecniche di contrasto convenzionali, le dottrine strategiche che le sorreggono, i saperi d'intelligence che le assistono, sin qui adottate vanno rivisitate. Per evitare repliche di Londra e Madrid servono strumenti nuovi. Operazioni di polizia internazionale mirate, rapide e efficaci; concertazione multilaterale sulle questioni calde che investono il mondo islamico; cooperazioni d'intelligence che siano davvero tali e non unidirezionali; politiche migratorie e di cittadinanza inclusive, che rendano convinto e conveniente l'isolamento dei radicali, visibili e invisibili, all'interno delle comunità musulmane. Anche perché, in presenza di uno jihadismo fuori moschea, un controllo sociale diffuso funziona meglio di qualsiasi occhiuta sorveglianza priva ormai dell'oggetto. Certo, la strada della "politica preventiva" richiede tempi più lunghi, ma la scorciatoia delle "guerra preventiva" ha prodotto i risultati sotto agli occhi di tutti.

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