Da La Repubblica del 24/07/2005
Il regime di Mubarak nel mirino jihadista
di Guido Rampoldi
NESSUNA zona franca: se non è Londra è il Mar Rosso. Nessun luogo sicuro: dalla metropolitana alla spiaggia, dall'autobus all'albergo, proseguono le mattanze di occidentali. Il mondo non è meno spaventoso per i non occidentali: però questa estate i cadaveri straziati siamo noi. Innanzitutto la strage di Sharm è un attacco a Mubarak.
Perverse ma non folli, l'altra notte le complicate traiettorie del terrorismo islamico hanno falciato europei inermi per convenienza eletti a simboli dei "crociati": ma in realtà miravano al regime egiziano e al suo vecchio raìs. Per la terza volta in un anno i kamikaze hanno colpito, stavolta con una violenza spaventosa, il settore trainante di un'economia malmessa, il turismo. E l'hanno colpito in una data simbolica per due ragioni: era l'anniversario dell'ascesa al potere di Nasser e dei colonnelli (1956), l'evento da cui il regime discende; e com'era scontato, di lì a poche ore Mubarak avrebbe annunciatore la propria candidatura nelle contestate elezioni presidenziali di settembre, cioè un altro mandato, il quinto consecutivo, dopo 24 anni di potere assoluto. Se tutto questo è vero, allora il massacro di ieri risponde a un calcolo "politico", sia pure ripugnante quanto grossolano, e a conti fatti perdente. Il sabotaggio della stagione turistica priverà il regime d'un importante flusso di valuta. Ma il terrorismo islamico ne esce peggio. Avesse ammazzato solo turisti europei, com'era il suo proposito, avrebbe conservato la considerazione di quell'islam radicale che osanna bin Laden e considera ogni occidentale un invasore dell'Iraq. Ma per un contrattempo ha ammazzato soprattutto operai e turisti egiziani, due terzi delle vittime. Questo potrebbe cambiare la percezione di molti.
Mubarak torna ad essere popolare: non in Egitto, ma in Occidente.
Scopriamo che è un prezioso moderato, e un nostro alleato nella "guerra" che stiamo combattendo, ci ripete un ardito, Marcello Pera. Sarà senza dubbio un amico dell'Occidente, come ieri attestavano vari leader europei e perfino la rivendicazione infilata dentro internet a firma "Brigate al Qaeda". Ma è un alleato assai inefficace: e di questo dovremmo pure prendere atto. Sotto la sua autocrazia la crisi egiziana prosegue nella continua tendenza al peggioramento. E in ballo c'è il destino d'un Paese che è da due secoli il laboratorio politico della regione. Vi sono nati i grandi movimenti che hanno formato il mondo arabo dalla metà dell'Ottocento - il riformismo islamico, il nasserismo, i Fratelli musulmani. Ha una grande minoranza cristiana, i copti, e la più autorevole tra le università islamiche del mondo, al Cairo. E per tutto questo era perfino ovvio che nel 2002 Bush candidasse proprio l'Egitto a guidare il cammino dei Paesi arabi verso la democrazia: doveva «mostrare la strada al Medio Oriente». Di più: un anno dopo l'Egitto pareva il fulcro del maestoso progetto per il "Grande Medio Oriente" che avrebbe diffuso riforme e democrazia ovunque nelle società musulmane, ovviamente a partire dall'Iraq. Di questo crepitare di buoni propositi è rimasto poco o nulla.
I liberali egiziani che speravano in Washington hanno scoperto presto il valore più declamatorio che pratico dei proclami statunitensi.
L'amministrazione Bush non aveva alcuna intenzione di forzare Mubarak alle riforme utilizzando l'arma degli aiuti americani (1,8 miliardi di dollari l'anno), e neppure la volontà di affidare ad un team di analisti la formulazione di proposte e suggerimenti. Le delegazioni che arrivavano da Washington non facevano una grande impressione agli studiosi riformisti dell'al-Arham Center for strategic studies («Magari sinceri, ma un gruppo di dilettanti ideologizzati», mi disse il politologo el Sayed Said). Però almeno esprimevano una visione nuova. Mentre gli europei in genere restavano paralizzati dalla paura che libere elezioni avrebbero consegnato il Paese ai Fratelli musulmani, gli americani ritenevano che valesse la pena di correre quel rischio.
Dopotutto i Fratelli musulmani avevano rinnegato il terrorismo in Egitto (però lo considerano legittimo in Israele) e chiunque avesse vinto avrebbe dovuto rimettere in piedi l'economia: giocoforza sarebbe diventato pragmatico. Questo dicevano gli americani.
Mubarak mise subito in chiaro che sarebbe stato lui a decidere tempi e modi delle riforme. E in seguito fu chiaro che non intendeva procedere alle riforme radicali considerate necessarie per aprire il sistema. Però all'inizio di quest'anno, sollecitato dagli americani, annunciò modifiche alla Costituzione per rendere libere le elezioni presidenziali. La stampa occidentale lo iscrisse tra i protagonisti d'una presunta "primavera araba", per citare l'incauto titolo del londinese Sunday Times, e tacque quando la sua polizia cominciò ad arrestare potenziali rivali: dopo il liberale Ayman Nur, quadri alti dei Fratelli musulmani, cui è stato negato il diritto di partecipare alle elezioni. Avendo selezionato i concorrenti secondo le proprie convenienze, e controllando lo Stato, i principali quotidiani, la sterminata burocrazia (5 milioni di impiegati), ovviamente Mubarak vincerà le elezioni del mese prossimo. Ma questo non gli darà legittimazione sufficiente a riforme sempre più necessarie quanto dolorose. È convinzione generale che il raìs dovrebbe privatizzare, licenziare, snellire, decentrare: ma a questo modo finirebbe per indebolire i propri strumenti di potere e scontentare la sua costituency storica. Nessuno crede che lo farà.
Non aprirà l'economia e neanche realmente il sistema politico: eppure questa è l'unica via per indebolire l'islamismo radicale, come sostengono quasi tutti gli analisti egiziani. Poi una polizia dai metodi assai spicci, una burocrazia non proprio specchiata, le moschee finanziate dal Golfo, la miseria, la disoccupazione, il sistema bloccato, contribuiranno a produrre, per reazione o per induzione, estremisti tentati da qualsiasi avventura. Però Mubarak resterà "filo-occidentale", e questo basterà a quanti di noi vedono tutto in termini di "guerra", alleanze politico-militari, assi, attacchi e controffensive. Se questi sono i nostri alleati, faremmo bene a cercarcene di migliori.
Perverse ma non folli, l'altra notte le complicate traiettorie del terrorismo islamico hanno falciato europei inermi per convenienza eletti a simboli dei "crociati": ma in realtà miravano al regime egiziano e al suo vecchio raìs. Per la terza volta in un anno i kamikaze hanno colpito, stavolta con una violenza spaventosa, il settore trainante di un'economia malmessa, il turismo. E l'hanno colpito in una data simbolica per due ragioni: era l'anniversario dell'ascesa al potere di Nasser e dei colonnelli (1956), l'evento da cui il regime discende; e com'era scontato, di lì a poche ore Mubarak avrebbe annunciatore la propria candidatura nelle contestate elezioni presidenziali di settembre, cioè un altro mandato, il quinto consecutivo, dopo 24 anni di potere assoluto. Se tutto questo è vero, allora il massacro di ieri risponde a un calcolo "politico", sia pure ripugnante quanto grossolano, e a conti fatti perdente. Il sabotaggio della stagione turistica priverà il regime d'un importante flusso di valuta. Ma il terrorismo islamico ne esce peggio. Avesse ammazzato solo turisti europei, com'era il suo proposito, avrebbe conservato la considerazione di quell'islam radicale che osanna bin Laden e considera ogni occidentale un invasore dell'Iraq. Ma per un contrattempo ha ammazzato soprattutto operai e turisti egiziani, due terzi delle vittime. Questo potrebbe cambiare la percezione di molti.
Mubarak torna ad essere popolare: non in Egitto, ma in Occidente.
Scopriamo che è un prezioso moderato, e un nostro alleato nella "guerra" che stiamo combattendo, ci ripete un ardito, Marcello Pera. Sarà senza dubbio un amico dell'Occidente, come ieri attestavano vari leader europei e perfino la rivendicazione infilata dentro internet a firma "Brigate al Qaeda". Ma è un alleato assai inefficace: e di questo dovremmo pure prendere atto. Sotto la sua autocrazia la crisi egiziana prosegue nella continua tendenza al peggioramento. E in ballo c'è il destino d'un Paese che è da due secoli il laboratorio politico della regione. Vi sono nati i grandi movimenti che hanno formato il mondo arabo dalla metà dell'Ottocento - il riformismo islamico, il nasserismo, i Fratelli musulmani. Ha una grande minoranza cristiana, i copti, e la più autorevole tra le università islamiche del mondo, al Cairo. E per tutto questo era perfino ovvio che nel 2002 Bush candidasse proprio l'Egitto a guidare il cammino dei Paesi arabi verso la democrazia: doveva «mostrare la strada al Medio Oriente». Di più: un anno dopo l'Egitto pareva il fulcro del maestoso progetto per il "Grande Medio Oriente" che avrebbe diffuso riforme e democrazia ovunque nelle società musulmane, ovviamente a partire dall'Iraq. Di questo crepitare di buoni propositi è rimasto poco o nulla.
I liberali egiziani che speravano in Washington hanno scoperto presto il valore più declamatorio che pratico dei proclami statunitensi.
L'amministrazione Bush non aveva alcuna intenzione di forzare Mubarak alle riforme utilizzando l'arma degli aiuti americani (1,8 miliardi di dollari l'anno), e neppure la volontà di affidare ad un team di analisti la formulazione di proposte e suggerimenti. Le delegazioni che arrivavano da Washington non facevano una grande impressione agli studiosi riformisti dell'al-Arham Center for strategic studies («Magari sinceri, ma un gruppo di dilettanti ideologizzati», mi disse il politologo el Sayed Said). Però almeno esprimevano una visione nuova. Mentre gli europei in genere restavano paralizzati dalla paura che libere elezioni avrebbero consegnato il Paese ai Fratelli musulmani, gli americani ritenevano che valesse la pena di correre quel rischio.
Dopotutto i Fratelli musulmani avevano rinnegato il terrorismo in Egitto (però lo considerano legittimo in Israele) e chiunque avesse vinto avrebbe dovuto rimettere in piedi l'economia: giocoforza sarebbe diventato pragmatico. Questo dicevano gli americani.
Mubarak mise subito in chiaro che sarebbe stato lui a decidere tempi e modi delle riforme. E in seguito fu chiaro che non intendeva procedere alle riforme radicali considerate necessarie per aprire il sistema. Però all'inizio di quest'anno, sollecitato dagli americani, annunciò modifiche alla Costituzione per rendere libere le elezioni presidenziali. La stampa occidentale lo iscrisse tra i protagonisti d'una presunta "primavera araba", per citare l'incauto titolo del londinese Sunday Times, e tacque quando la sua polizia cominciò ad arrestare potenziali rivali: dopo il liberale Ayman Nur, quadri alti dei Fratelli musulmani, cui è stato negato il diritto di partecipare alle elezioni. Avendo selezionato i concorrenti secondo le proprie convenienze, e controllando lo Stato, i principali quotidiani, la sterminata burocrazia (5 milioni di impiegati), ovviamente Mubarak vincerà le elezioni del mese prossimo. Ma questo non gli darà legittimazione sufficiente a riforme sempre più necessarie quanto dolorose. È convinzione generale che il raìs dovrebbe privatizzare, licenziare, snellire, decentrare: ma a questo modo finirebbe per indebolire i propri strumenti di potere e scontentare la sua costituency storica. Nessuno crede che lo farà.
Non aprirà l'economia e neanche realmente il sistema politico: eppure questa è l'unica via per indebolire l'islamismo radicale, come sostengono quasi tutti gli analisti egiziani. Poi una polizia dai metodi assai spicci, una burocrazia non proprio specchiata, le moschee finanziate dal Golfo, la miseria, la disoccupazione, il sistema bloccato, contribuiranno a produrre, per reazione o per induzione, estremisti tentati da qualsiasi avventura. Però Mubarak resterà "filo-occidentale", e questo basterà a quanti di noi vedono tutto in termini di "guerra", alleanze politico-militari, assi, attacchi e controffensive. Se questi sono i nostri alleati, faremmo bene a cercarcene di migliori.
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